Dallo spazio, l’astronauta Eitan Stiva: «Non esistono sogni troppo lontani»

di David Zebuloni

Ha guardato la Terra dall’oblò di SpaceX. Ha condotto esperimenti per capire se la vita nello spazio sarà, un giorno, accessibile a tutti. Tra gli oggetti personali che ha portato  con sé, ci sono le pagine del diario di Ilan Ramon, suo amico  e primo astronauta israeliano, tragicamente caduto nella missione dello Shuttle Columbia. Ma il futuro tra le stelle  è ancora tutto da scrivere. Una intervista esclusiva

Lo spazio, nell’immaginario collettivo, è un fascio di stelle. Una meta lontana e irraggiungibile, a tratti romantica. La metafora dell’infinito, della quiete, del mistero. Lo spazio è anche il sogno di ogni bambino e, forse, il desiderio proibito di ogni pilota. Per gli israeliani, invece, lo spazio ha un’accezione completamente diversa: è lo schianto della navicella di Ilan Ramon, il primo astronauta israeliano della storia, mai tornano a casa dalla sua missione nel blu infinito. Nessuno, dopo di lui, ha cercato di replicare l’esperienza finita in tragedia. Nonostante la predisposizione degli israeliani a voler eccellere in ogni settore e, soprattutto, l’indole a voler lanciarsi in ogni avventura (specie se di natura tecnologica), dopo il 2003 nessun israeliano è mai più sbarcato nello spazio. Nessuno tranne Eitan Stiva, l’ex pilota militare che ha deciso di ricucire la ferita ancora aperta di milioni di israeliani e mostrare loro che lo spazio non è poi così irraggiungibile. Un anno esatto fa, infatti, nel mese di aprile 2022, a quasi vent’anni dall’ultima volta, Eitan si è lanciato nello spazio, diventando il secondo astronauta della storia dello Stato d’Israele, e il primo ad aver completato la missione. Durante il nostro incontro, Eitan racconta con entusiasmo contagioso il mondo visto dall’altra parte dell’atmosfera. Mi apre una finestra inedita su un luogo sconosciuto, condivide attimi surreali di una realtà che sembra tratta da un film di fantascienza, eppure quando gli domando quale sia la scoperta più sorprendente che abbia fatto nello spazio, l’astronauta risponde senza esitare: la natura è straordinaria, ma l’uomo lo è ancora di più. Proprio così. Forse non serve viaggiare nello spazio per scoprire che abbiamo già tutto ciò che ci serve. Noi stessi.

Signor Stiva, ogni bambino sogna di essere un astronauta. Lei che lo è per davvero, mi dica: la vita nello spazio è emozionante o deludente? 

Lo spazio è musa. È ispirazione. Oggi mi impegno giorno e notte a raccontare la mia esperienza da astronauta in giro per il paese. Parlo con tutti: bambini e primari di ospedali indistintamente. Spesso, quando spiego la mia missione, domando a chi mi ascolta: se dovessi essere un astronauta, quale oggetto porteresti con te nello spazio? L’obiettivo è quello di aprire le menti, di invitare alla riflessione.

Qual era l’obiettivo della sua missione?

L’ottantacinque per cento delle missioni che vengono svolte dagli astronauti della NASA nello spazio sono di manutenzione. Essendo la nostra una missione privata, abbiamo avuto l’opportunità di occuparci di altro: di scienza, di cultura, di arte, di educazione. Il nostro obiettivo era quello di rendere la vita di un astronauta accessibile a tutti, di raccontare lo spazio attraverso i nostri occhi. Durante la nostra permanenza, infatti, abbiamo comunicato con scienziati e filosofi, ma anche con giocatori di calcio.

Il vostro era dunque uno statement: lo spazio appartiene a tutti, anche a chi non può arrivarci fisicamente.

Esattamente, nella missione mi sono portato dietro una moneta di Bar Kochva e i disegni di un gruppo di bambini beduini. La comunità sorda mi ha chiesto di mandare dei messaggi dallo spazio nella lingua dei segni e la comunità disabile mi ha chiesto di mostrare come ci si può arrangiare nella navicella senza l’uso delle mani, così mi sono filmato con una mano legata dietro la schiena mentre volteggiavo nel vuoto. Volevo che tutti potessero viaggiare con me nello spazio.

Come ci si prepara fisicamente ad una missione nello spazio?

Dal giorno in cui ho deciso di voler compiere questa missione al giorno dello sbarco, è trascorso un anno e mezzo. Gli ultimi sette messi di allenamenti a Houston e nel JSC, la sede della NASA, sono stati particolarmente intensivi. Ho fatto innumerevoli simulazioni con il solo obiettivo di innescare in me un automatismo che mi permettesse di agire nello spazio senza dover pensare più volte all’azione giusta da svolgere. Tre giorni prima del lancio, mi hanno sincronizzato all’orario londinese, che è quello che vige nello spazio. Nonostante mi trovassi in Florida, mi svegliavo alle tre del mattino e facevo colazione alle quattro.

Psicologicamente, si sentiva pronto allo sbarco?

Ricordo che avevo sempre la sensazione che mi rimandassero il lancio, o che qualcosa sarebbe andato storto. Persino quando ero dentro la navicella, legato, con la tuta spaziale indosso, pronto per partire, avevo la convinzione che ci avrebbero detto di tornare l’indomani per impossibilità tecniche. Poi c’è stato il famoso conto alla rovescia, quarantacinque secondi nei quali tutti urlavano come matti. In quel momento ho realizzato che stava succedendo per davvero, che stavo per essere lanciato nello spazio. Una volta sbarcati, ho provato una felicità immensa, indescrivibile.

Com’è il decollo di una navicella spaziale?

Simile al decollo di un aereo, ma più piacevole, meno turbolento, più silenzioso.

Può provare a descrivermi la sensazione di volteggiare nel vuoto, senza forza di gravità?

Ci si sente assolutamente privi di peso corporeo. Non è facile abitarsi a questa sensazione. Bisogna imparare a mangiare, a bere, a spostarsi di luogo in luogo, a togliersi e mettersi la tuta.

Com’è la routine di un astronauta nello spazio?

Ci si sveglia alle sei del mattino e alle sette ci si incontra con tutto il team per una prima riunione di gruppo. Dopodiché ognuno esce per compiere il proprio lavoro e alle sette di sera ci si incontra di nuovo per fare il punto della situazione e condividere con gli altri quanto realizzato. Se qualcuno ha riscontrato qualche problema tecnico, lo risolviamo insieme. Poi si cena e alle nove si spengono le luci, così tutti vanno a dormire. Io solitamente rimanevo sveglio fino a mezzanotte: parlavo con la mia famiglia, mi organizzavo per l’indomani e trascrivevo i miei pensieri.

Foto NASA

Si dorme bene nello spazio?

Io dormivo benissimo, sospeso in aria, dentro un sacco a pelo legato alla parete. Solo la prima notte mi è risultato più difficile addormentarmi. Appena chiudevo gli occhi, sentivo tutto girarmi intorno. Poi mi sono abituato anche a questa sensazione. Mi turbava soprattutto la mancanza di controllo sul mio corpo. Poi mi sono detto che non aveva nessuna importanza in che posizione fossi. E mi sono lasciato andare.

Non ci si sente soli nello spazio, così lontani dal pianeta terra?

Soli? Al contrario. Ho condiviso la missione con undici astronauti. Forse ciò che più mi mancava era proprio starmene un po’ da solo. Ma come ti ho detto, anche a questo avevo trovato una soluzione: quando tutti dormivano, io me ne stavo per conto mio e fotografavo ciò che vedevo fuori del finestrino. Erano attimi molto speciali quelli.

Non può essere tutto così perfetto nello spazio Signor Stiva. Mi può raccontare di una difficoltà che avete voi lì e che non abbiamo noi qui?

La difficoltà principale è quella fisiologica, poiché il flusso dei liquidi corporei cambia. Il cuore batte forte verso l’alto e la testa comincia a pulsare. Anche andare in bagno non è semplice. Voglio dire, non è facile espellere ciò che si ha dentro quando non si avverte alcun tipo di pressione nel corpo. Tutto volteggia nello spazio, anche dentro di noi.

Mi racconta invece un momento di puro stupore?

Non sono un uomo credente, ma quando ero nello spazio ho letto, guardando fuori dalla finestra della navicella, il primo capitolo della Genesi. Quello che racconta la creazione del mondo. Ecco, vedere la terra da quella prospettiva pensando alla creazione, è stato incredibile.

Cosa si vede da là che non si vede da qua? Voglio dire, che consapevolezze in più degli altri ha un astronauta sulla nostra esistenza?

Vedere il pianeta terra dall’esterno e da così lontano, è davvero uno spettacolo sensazionale. Tuttavia ho notato una cosa importante: dallo spazio non si vedono le persone. Si vedono i paesaggi, le montagne, i campi di raccolto, le navi, ma non si vedono le persone. Ho pensato a ciò che diceva Sofocle, ovvero che la natura è straordinaria, ma l’uomo lo è ancora di più.

Mi sta dicendo  che ciò che più le è mancato del nostro pianeta, è l’uomo stesso?

Sì, proprio così. In una realtà ostile come quella dello spazio, ci si rende conto che i rapporti interpersonali sono la cosa più preziosa che abbiamo.

Questo sguardo esterno rispetto al mondo, porta necessariamente alla filosofia e alla riflessione? Non si può viaggiare nello spazio senza porsi domande esistenziali?   

No, lo spazio fa riflettere.

Qual è stata la riflessione più illuminante che ha avuto durante il suo viaggio lontano dal pianeta terra?

Ho capito quanto tutto abbia valore nella vita e, al contempo, quanto nulla abbia realmente valore. Voglio dire, lo spazio amplifica quel divario straordinario che esiste tra la percezione di importanza che abbiamo noi di un determinato argomento, e l’impatto che questo argomento abbia effettivamente sulla realtà. Tutto si rimpicciolisce se visto da lontano. Solo alcune cose risultano più grandi e impellenti. Per esempio, quelle azioni che svolgiamo senza pensarci troppo, e che favoriscono la distruzione del pianeta. Trovo questo conflitto tra ciò che è futile e ciò che è di vitale importanza, molto affascinante.

Mi scusi se metto per un attimo la filosofia da parte, ma è vero che le hanno procurato del gefilte fish nello spazio in vista di Pesach?

Sì, la sera di Pesach il capo della missione mi ha sorpreso con quattro lattine di gefilte. Le ho condivise con tutti i compagni ovviamente, è stato un bel momento.

Signor Stiva, mi racconta del suo rapporto con Ilan Ramon?

Ancor prima di diventare astronauti, io e Ilan eravamo già buoni amici, entrambi piloti nella stessa base militare. Abitavamo anche nello stesso quartiere e le nostre mogli erano molto vicine. Il giorno del suo lancio nello spazio, noi c’eravamo. Nel giorno in cui invece sarebbe dovuto tornare, sua moglie ci chiese di non venire. Sapeva che Ilan sarebbe passato alla storia come primo astronauta israeliano, sapeva che tutti l’avrebbero cercato e voleva trascorrere qualche momento di intimità con lui prima dell’incontro con il pubblico. Purtroppo, ciò non è avvenuto. Nel mio viaggio nello spazio, tuttavia, ho voluto portare con me un pezzo di lui: la fotografia dei documenti che si sono salvati dallo schianto della sua navicella.

Ilan Ramon

Siete riusciti a mantenere i contatti con i Ramon dopo la tragedia?

Certo, un rapporto molto stretto. Giusto la settimana scorsa siamo andati a sciare insieme. I suoi figli è come se facessero parte della mia famiglia. Dopo aver deciso di voler partire per lo spazio e dopo essermi consultato con mia moglie e con i miei figli, ho incontrato i figli di Ilan per ricevere la loro benedizione. Loro mi hanno subito abbracciato e mi hanno detto che se c’è qualcuno che deve compiere questa missione, quello sono io.

Non fa paura compiere una missione nello spazio con la consapevolezza che uno dei suoi più cari amici, da lì non è mai più tornato?

Tutti noi avevamo un po’ di paura. Non solo io e la mia famiglia, ma l’intero paese che ha vissuto il trauma della morte di Ilan e non l’ha ancora superato. Il mio obiettivo era anche quello di cambiare questa percezione collettiva, di correggerla. Credo di esserci riuscito. Dopo la mia missione, credo di aver aperto la porta ad una nuova generazione di astronauti israeliani.

Perché è passato così tanto tempo tra il suo lancio e quello di Ilan? Perché nessuno è partito per la stessa missione dopo Ilan e prima di lei?

Se la sua missione avesse avuto un lieto fine, credo che ci sarebbero stati altri astronauti israeliani prima di me. Credo che Israele avrebbe preso parte prima alle missioni internazionali nello spazio. È un peccato che non sia andata così. Come ti ho già detto, spero che d’ora in poi la storia cambi. In positivo. 

Crede che Israele possa aspirare a diventare una superpotenza mondiale anche in questo settore?

Una superpotenza no, non credo. Lo spazio è troppo caro, complicato e pericoloso: solo delle collaborazioni internazionali possono funzionare per noi in questo momento. Israele può prendere parte ad un sistema già esistente, unirsi ai paesi che già esplorano lo spazio e sicuramente contribuire nel settore della ricerca. Se ci unissimo agli europei, gli americani, i canadesi, i russi e i giapponesi, direi che otterremmo già un ottimo risultato. Non dobbiamo essere megalomani.

Dopo aver realizzato il sogno di ogni bambino, c’è un altro sogno che desidera ancora realizzare?

Imparare l’arabo.

Tutto qua? Dopo aver conquistato lo spazio, mi aspettavo un po’ di più.

Mi piacerebbe imparare anche l’italiano, è una lingua bellissima, ma meno pratica dell’arabo nel Medio Oriente.

Signor Stiva, ciò che più ricordiamo di Neil Armstrong è la sua celebre frase “Questo è un piccolo passo per l’uomo, ma un grande passo per l’umanità”. Con quale frase vuole essere ricordato lei?

Non esistono sogni troppo lontani, possiamo realizzare tutto ciò che desideriamo.