Un progetto contro la Shoah

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Come affrontare il tema tragicamente unico della Shoah, degli assassinati, della fabbrica della morte, senza cadere in retorica o in kitsch? È un interrogativo che si pongono anche gli artisti chiamati a creare monumenti in ricordo dell’Olocausto da istituzioni pubbliche e private sparse soprattutto in Europa, Israele e Stati Uniti. La loro risposta non può che essere diversificata, per cui le opere che alla fine creano sono ben diverse le une dalle altre. In linea generale, possiamo distinguerle fra monumenti in cui la tragedia è rappresentata in modo molto diretto, evidente ed altri che invece cercano di toccare le sensibilità più profonde del pubblico, presentando la tematica in modo indiretto. Non è qui possibile presentare tutti gli esempi di opere di ambedue i tipi, e neppure compiutamente di uno solo, per non finire in una sterile elencazione di luoghi da visitare. Mi soffermerò quindi solo su alcune opere, privilegiando quelle del secondo genere, fra le quali rientra senza dubbio il monumento che Rachel Whiteread ha realizzato nella Judenplatz di Vienna. L’artista ha raggiunto ormai da tempo una consacrazione internazionale: cresciuta all’interno del movimento dei rivoluzionari Young British Artists degli anni Novanta, ha visto la sua carriera continuare a svilupparsi anche quando il magnate Saatchi non ha più supportato attivamente né lei né i suoi compagni.
Il luogo prescelto dalla Whiteread per il suo monumento è la piazza centrale del quartiere ebraico medievale di Vienna, distrutto completamente intorno al 1420, quando l’intera comunità ebraica venne espulsa. La qualità dell’opera della Whiteread è notevole ed apprezzabile a diversi livelli di lettura. Innanzitutto l’impatto visivo immediato è di notevole effetto: il suo grande parallelepipedo di cemento bianco, di dimensioni di circa 10 metri per 3, assume sembianze spettrali alla luce tenue di Vienna o al crepuscolo; il contrasto con gli edifici barocchi circostanti non può lasciare indifferenti. Avvicinandosi all’opera, si nota poi come la Whiteread abbia usato anche qui il suo consueto metodo di mostrare il negativo degli oggetti più comuni per evidenziarne aspetti solitamente tralasciati. L’oggetto qui visto dall’interno è una grande biblioteca, di cui appaiono lunghe file di libri chiusi, visti dal lato delle pagine e non della costola.
Sono i simboli delle vite dei 65 mila ebrei viennesi uccisi, ognuno dei quali aveva una sua storia, un suo messaggio che va raccontato e che poteva contribuire alla crescita collettiva sia singolarmente che collettivamente.
L’artista, ha inserito una grande porta di cemento, chiusa, al centro di questa biblioteca rovesciata, a mostrare l’eternità della chiusura di quei libri: eppure ci invita comunque ad aprirli, a guardarli, ce ne mostra le pagine, per superare l’idea che l’ebraismo viennese sia morto. È anzi vivo e vi sono radici da cui ripartire. Sul pavimento rialzato sotto la biblioteca in negativo, troviamo scritti i nomi dei campi di sterminio in cui quegli uomini-libri vennero uccisi e bruciati.
Un approccio non del tutto dissimile alla Shoah è stato adottato dall’architetto Peter Eisenman nel costruire la sua installazione al centro di Berlino, a due passi dalla Potsdammer Platz. Su un percorso ondulato ha posto e porrà ben 2.700 blocchi di cemento simili a steli dell’altezza di 5 metri ciascuno, posti a una distanza l’uno dall’altro tale da poterci agevolmente girare attorno.
L’area interessata dall’opera è enorme (19 mila mq) e adeguatamente sfruttata per proiettare il visitatore in una sfera totalmente nuova e di-staccata dal mondo circostante.
A questo contribuiscono certo le grandi dimensioni delle steli, ma anche il piano leggermente ondulato che fa quasi perdere l’equilibrio fisico. I blocchi sono tutti uguali e tali rimarranno visto che sono trattati in modo da non essere deturpati da graffiti. Eisenman ha quindi creato un luogo di riflessione in cui, come per la Whiteread, si vuole sottolineare l’enorme significato della perdita di ciascuna vita, per cui ogni stele ha una presenza enorme, da cui non si può sfuggire.
Ma queste vite, sono state perse perché erano unite fra loro, perché insieme formavano quel mondo ebraico che in parte è stato distrutto e che le tante steli (come i tanti libri della Whiteread) tutte assieme ricordano. La barbarie dell’Olocausto sta nel singolo omicidio ma anche nell’omicidio di massa.
Tenere assieme questi due concetti e trasmetterli è impresa titanica: Christian Boltanski ha cercato di dedicare a ciascuno opere diverse. Sempre a Berlino ha creato un’installazione su un muro adiacente a una casa distrutta durante la guerra e che, vedi caso, era abitata esclusivamente da ebrei. Ha allora posto all’altezza corrispondente ai piani scomparsi il nome degli inquilini morti, che quindi singolarmente tornano a vivere davanti a noi con le loro storie e con la loro tragica fine.
In altre occasioni, Boltanski ha invece creato installazioni con ammassi di vestiti o di scarpe, richiamando il parallelo con le fotografie scattate nei campi di concentramento e che fanno parte della memoria collettiva occidentale.
Ma c’è chi non dimentica come la Shoah mirava a uccidere non solo un popolo, ma anche una cultura e su questo si sofferma l’israeliano Misha Ullman, che sempre a Berlino, a Bebelplatz ha creato una stanza in vetro, quasi invisibile di giorno, e al cui interno ha sistemato una biblioteca vuota e ha scritto “Chi brucia libri, prima o poi brucerà uomini”.
È un’installazione che non vuole colpire immediatamente l’attenzione, perché la scomparsa di una cultura non produce effetti immediatamente visibili, ma è molto profonda. E ci vuole ricordare anche quella che è la nostra vittoria più importante sui nazisti: non solo viviamo, ma continuiamo a portare avanti i valori che volevano distruggere.