Obama: piccoli passi a Gerusalemme

Mondo

di Aldo Baquis

Per quattro anni gli israeliani lo hanno atteso invano. Quando infine il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama è sbarcato in Israele e ha visitato Gerusalemme, ha potuto toccare con mano la cortina di scetticismo sviluppatasi nei suoi confronti. Sì, gli Stati Uniti sono ancora considerati da Israele come l’alleato più importante. Sì, Obama è ritenuto, in buona sostanza, come un amico dello Stato ebraico, che in questi anni ha dimostrato la propria fedeltà sia con importanti aiuti militari sia con spericolati interventi diplomatici di salvataggio in extremis, alle Nazioni Unite.

Ma la sua politica mediorientale, agli occhi degli israeliani, appare uno sfacelo su tutti i fronti. Fiduciosi nell’esito dell’Islam politico, gli Stati Uniti si trovano adesso a fare i conti, in Egitto, con una leadership oscurantista e poco incline a difendere le libertà civili. In Turchia, hanno scommesso su Erdogan, con risultati non dissimili. E in Siria, si sono trovati trascinati in un fronte anti-Assad che include anche Arabia Saudita e Qatar: due fornitrici di armi a gruppi islamici radicali.

Per il suo secondo mandato Obama si è scelto inoltre collaboratori chiave che fanno rabbrividire lo staff del primo ministro Benyamin Netanyahu. Il Segretario alla difesa Chuck Hagel si è espresso più volte in maniera a dir poco abrasiva nei confronti di Israele, denunciando un suo asserito strapotere nelle leve di comando a Washington e mostrandosi allarmato dal rischio che lo Stato ebraico degeneri verso un regime di apartheid.

Peggio ancora: sulla questione iraniana, Hagel ha fatto sapere di essere personalmente contrario ad azioni di forza contro le sue installazioni nucleari. Questa opinione, a livello strategico, può certamente essere valida: ma ha stupito il fatto che egli abbia sentito necessaria renderla di dominio pubblico. Una sortita che avrà probabilmente rincuorato Teheran, mentre Gerusalemme si domanda adesso quale importanza annettere alle dichiarazioni di Obama alla televisione israeliana Canale 2, secondo cui «tutte le opzioni sono sul tavolo».

Tutti gli uomimi di Obama

Alla guida della Cia, inoltre, Obama ha voluto il veterano John Brennan: un professionista della lotta al terrorismo, che però ostenta un rispetto, che a volte appare eccessivo, verso l’estremismo islamico e verso anche la Jihad, la guerra santa islamica. Nelle settimane scorse Brennan ha avuto parole di stima verso coloro che ha chiamato: «I nostri partner sauditi». Parole che hanno destato critiche persino negli Stati Uniti, dove ancora si ricorda che i sauditi hanno intralciato un filone di indagini sugli attentati alle Torri Gemelle. A completare lo staff di Obama, c’è il Segretario di Stato, John Kerry: è appena reduce da una missione diplomatica in alcuni Paesi del Medio Oriente (Israele escluso), fra cui l’Arabia Saudita e l’Egitto. Proprio al Cairo, Kerry ha preso le difese di Mohammed Morsi, destando una certa dose di irritazione nell’opposizione politica al presidente islamico.

Mentre Obama veleggia dunque verso posizioni di apertura al mondo arabo (accompagnate da un graduale ritiro della propria presenza militare nella Regione), in Israele si è appena costituito un governo di segno molto diverso. Nelle questioni interne avranno un peso importante le due liste centriste di Yair Lapid e Tzipi Livni, che sono riusciti ad estromettere dalla coalizione due liste di religiosi ortodossi. Ma nei posti chiave sarà determinante la visione del Likud e dei suoi alleati nazionalisti.

Qualche ambiguità

Al fianco di Netanyahu, esce di scena il Ministro della Difesa (un pragmatico), Ehud Barak -uomo di collegamento per oltre cinque anni con l’establishment militare degli Stati Uniti -, per fare spazio all’ex capo di stato maggiore Moshe Yaalon, che ha fama di falco. Gli Esteri torneranno ad Avigdor Lieberman (se e quando riuscirà a districarsi da un processo per frode ed abuso d’ufficio). E nel Ministero dell’Edilizia – quello incaricato fra l’altro dei progetti di costruzione negli insediamenti -, ci sarà un altro colono (oltre allo stesso Lieberman): Uri Ariel, del partito nazionalista Focolare Ebraico.

A testimoniare il senso di distacco fra Obama e i dirigenti di Gerusalemme, basti questo piccolo episodio: il rifiuto del Presidente degli Stati Uniti di parlare alla Knesset e il suo desiderio di rivolgersi – passando sopra la testa della leadership locale-, agli israeliani della strada, alla gente comune, tutti invitati in un centro congressi.

Fin dall’inizio, del resto, Obama aveva detto di non essere latore di alcuna nuova iniziativa di pace. «Vengo per ascoltare, per sentire quali sono i progetti (di Netanyahu e del Presidente palestinese Abu Mazen), per comprendere quale sia la loro visione. E anche per dare loro qualche consiglio». Notoriamente, Obama ritiene un grave errore per Israele l’espansione nelle colonie, che, teme, lo condannino a divenire, presto o tardi, uno Stato binazionale.

«Per il bene stesso di Israele», ha affermato, «è dunque necessaria la costituzione di uno Stato palestinese al suo fianco»: una formula elegante, ma di difficile realizzazione. Anche perché ancora nessuno sa come risolvere – a livello diplomatico – la ingombrante presenza a Gaza di Hamas: una organizzazione islamica, venata di antisemitismo, che predica la distruzione di Israele e che, per buona parte, è appoggiata dall’Iran. Specialmente, nelle forniture militari. Nello scorso novembre Hamas ha colpito a più riprese, con i suoi missili, Tel Aviv e la periferia di Gerusalemme. L’idea di una Palestina “democratica e smilitarizzata’’ -, caldeggiata a suo tempo da Bill Clinton -, appartiene ormai al passato, almeno per quanto riguarda Hamas ed il suo mini-esercito di 20 mila miliziani.

Oltre alla questione palestinese, sull’agenda di Obama c’erano anche i possibili sbocchi della crisi siriana e i progetti atomici dell’Iran. In Siria, lo sfaldamento del regime procede di giorno in giorno, di ora in ora. Secondo l’intelligence di Israele, Bashar Assad avrebbe già avviato i preparativi per il ricorso ad armi chimiche, anche se ordini precisi in merito non sono stati ancora impartiti.

L’ipotesi di un attacco siriano a sorpresa, contro Israele – anche in reazione ad una incursione di Israele alla periferia di Damasco, alla fine di gennaio -, non può essere scartata. Sul confine nord di Israele, i filo-iraniani di Hezbollah restano mobilitati in perenne stato di allerta. La miccia di un nuovo conflitto regionale è sotto gli occhi di tutti.

Fidarsi o non fidarsi?

Per quanto concerne l’Iran, Obama concorda con Netanyahu che il 2013 sarà un anno critico e che l’acquisizione da parte degli ayatollah di armi atomiche “è una linea rossa che non va attraversata’’. Diversamente da Netanyahu, Obama mantiene qualche residua speranza che le sanzioni economiche sortiscano un qualche effetto su Teheran e che la diplomazia possa ancora condurre i dirigenti iraniani a più miti consigli. Israele, dunque, farebbe bene a fidarsi di Washington.

Le buone intenzioni di Obama sono fuori discussione, anche in Israele. Ma su questa minaccia cardinale per la sicurezza di Israele si torna al punto di partenza. Ossia: può lo Stato ebraico fidarsi (anche alla luce delle loro analisi passate sulla primavera araba), della perspicacia e delle determinazione dello staff  Obama-Hagel-Kerry-Brennan? E se la risposta fosse negativa: quali altre opzioni restano? Mentre, nei giorni scorsi, Obama passava con la sua limousine dal Museo di Israele, con i suoi Rotoli del Mar Morto, fino al monte Herzl (dove sono sepolti l’ideologo del sionismo Teodoro Herzl e il premier laburista Yitzhak Rabin), proprio questi erano parte degli interrogativi che assillavano Netanyahu, nei primi giorni del suo terzo governo.