Le proteste in Libia per i contatti con Israele hanno mostrato che il percorso per allargare gli Accordi di Abramo è ancora lungo

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di Francesco Paolo La Bionda
Lo scorso 28 agosto, la notizia che la ministra degli Esteri libica Najla Al Mangoush avesse incontrato a Roma, seppur informalmente, il suo omologo israeliano Eli Cohen, è stata accolta nel paese arabo con proteste che hanno incendiato la notte di Tripoli. Abdul Hamid Dbeibah, premier ad interim della Libia, è stato costretto a dichiarare di aver sospeso la ministra, nel frattempo rifugiatasi in Turchia, e di averla deferita per un’indagine.

A rivelare la notizia è stato lo stesso Cohen, che è stato per questo duramente criticato dall’opposizione israeliana, che lo ha accusato di aver messo a rischio la credibilità diplomatica dello Stato ebraico solo per farsi pubblicità. “Questo è ciò che succede quando una persona senza esperienza in campo diplomatico viene nominata ministro degli Esteri”, ha dichiarato l’ex primo ministro Yair Lapid.

Sulla vicenda ha pesato l’instabilità cronica della Libia, in cui la fragile tregua che dura ormai due anni tra le diverse fazioni è spesso interrotta da episodi di violenza, compresi scontri armati tra le milizie rivali. Ma è anche la dimostrazione di come, a tre anni dalla firma iniziale degli Accordi di Abramo, la normalizzazione dei rapporti tra Israele e i paesi arabi continui a scontrarsi con antisemitismo e antisionismo, ormai endemici nella popolazione dopo decenni di propaganda, anche quando i governi dei paesi stessi mostrano maggiore apertura.

Lo scorso anno, ad esempio, un sondaggio del Washington Institute aveva rivelato che il 76% degli abitanti del Bahrain e il 71% degli abitanti degli Emirati Arabi Uniti, entrambi paesi firmatari degli Accordi, li giudicava negativamente. Sempre lo scorso anno un altro emirato del Golfo, il Qatar, aveva concesso agli inviati e ai tifosi israeliani di entrare nel paese per seguire i Mondiali di calcio: ciononostante, quasi tutti i cittadini dello Stato ebraico che vi si erano recati erano stati oggetti di insulti o ostilità una volta rivelata la propria provenienza.

Antisemitismo tenace in una Libia senza più ebrei

La comunità libica tripolina, con una storia millenaria alle spalle, contava circa 40.000 persone dopo la Seconda Guerra Mondiale. Sopravvissute alle persecuzioni del regime coloniale fascista, dovettero subire l’ostilità dei loro concittadini arabi a seguito della fondazione di Israele, tanto che nel 1967 si era ridotta a 7.000, quasi tutti evacuati per proteggerne l’incolumità a seguito della Guerra dei Sei Giorni. Nel 1974 gli ebrei nel paese erano appena 20, che si ridussero a un’ultima sopravvissuta morta nel 2003. Ciononostante, l’antisemitismo è rimasto diffuso nel paese, complice l’’irriducibile ostilità del regime di Gheddafi verso Israele: quando nel 2011 scoppiò la guerra civile, un sondaggio rivelò che un quinto dei miliziani che avevano imbracciato le armi contro il dittatore era convinto che quest’ultimo fosse di discendenza ebraica.