di Davide Cucciati (testo e foto)
Arrivare in Ucraina necessita di una certa dose di inventiva poiché non sono reperibili dei voli. Pertanto, mi sono recato in Polonia e, il 6 maggio 2025, ho preso un treno notturno dalla cittadina di Przemyśl. Sul treno, riverniciato di recente con l’ormai famoso tridente ucraino sulle fiancate, si accede soltanto dopo aver passato i controlli polacchi e superato un’inquietante alta recinzione metallica.
Appena salito, mi accorgo che si tratta di un vecchio convoglio: dentro è essenziale e spartano. Il personale parla soltanto in ucraino. A un certo punto, senza preavviso, il treno si ferma e salgono dei soldati che controllano i passaporti uno per uno chiedendo altresì di aprire i bagagli. Questa procedura può durare più di un’ora. Poi, si riparte, lentamente, verso Kyiv, provando a prendere sonno e cercando di ignorare lo sferragliare dei binari. Questo è l’ingresso verso una guerra vera che non risparmia nessuno. Né ebrei né non ebrei: non ci sono quartieri o identità esenti da pericolo.
La vita nelle città, fra distruzione e ricostruzione
Arrivato nella capitale, la prima impressione è spiazzante: la città è viva. La gente lavora, i locali sono aperti e i bar pieni. Però, la guerra è sempre presente. Lo capisci parlando con le persone per strada, vedendo le app per gli allarmi antiaerei sui telefoni e il coprifuoco a mezzanotte rispettato davvero con la polizia che controlla le strade. Lo hai molto chiaro quando senti il nome Shahed, i droni iraniani forniti alla Russia.
La mattina di venerdì 9 maggio ho visitato Irpin. Lì il ponte sul fiume è stato fatto saltare dall’esercito ucraino per rallentare l’avanzata dei russi. Una scelta strategica che ha salvato Kyiv da un possibile accerchiamento. Irpin ha resistito anche grazie alla tenacia del sindaco Oleksandr Markushyn che, nei giorni più duri, ha organizzato un corpo di volontari per fermare l’avanzata nemica. Oggi Irpin si sta ricostruendo anche grazie ai fondi internazionali ma i segni della guerra sono ovunque tra palazzi crivellati e automobili bruciate.
Sempre quel giorno, nella periferia di Kyiv, ho visto interi edifici residenziali rasi al suolo da bombardamenti avvenuti appena una settimana prima. Nessun obiettivo militare era visibile nelle vicinanze. Un anziano signore ucraino si lamentava dell’aggressione russa rimproverando il mondo di girarsi dall’altra parte.
Poche ore dopo ho partecipato alla manifestazione di Europa Radicale denominata “l’Europa rinasce a Kyiv”, conoscendo dei volontari italiani che combattono in prima linea come, ad esempio, Yuri Previtali.
Essere ebreo in guerra

Il 9 maggio era un venerdì; pertanto, a conclusione di quella giornata, mi sono immerso totalmente nell’atmosfera dello Shabbat con la Comunità ebraica di Kyiv, anche grazie all’ospitalità di Rav Israel Azman nel tempio Brodsky. È lì che ho conosciuto Moshe, giovane soldato ucraino ed ebreo. Abbiamo parlato a lungo e mi ha raccontato cosa significhi essere ebreo in un esercito in guerra: non un’eccezione, bensì una responsabilità in più. Secondo le sue parole, non c’è una vera differenza nella consapevolezza ebraica durante il servizio: è semplicemente parte del dovere. Moshe sceglie di alzarsi prima degli altri per fare la teffilah e indossare i teffilin osservando così i propri doveri sia di ebreo sia di soldato ucraino. Una normalità fatta di Torah e divisa. Di mitzvot e servizio. Come quella di Rav David Milman, che ho incontrato per caso giovedì 8 maggio, sempre al tempio Brodsky, in tuta mimetica, mentre parlava in ucraino ai presenti. Solo dopo ho saputo chi fosse: uno dei rabbini più attivi della comunità, punto di riferimento anche militare, in stretto contatto con il ben noto Rav Moshe Azman. Il tempio Brodsky, il progetto Anatevka, la rete dei centri di assistenza fondati dalla comunità: sono il volto visibile di un ebraismo che non fugge ma che resta e costruisce. Anatevka, a 30 km da Kyiv, è un villaggio nato nel 2015 per i profughi della parte orientale dell’Ucraina e oggi accoglie migliaia di rifugiati. Non solo ebrei. La comunità distribuisce cibo, medicinali, accoglie bambini e forma giovani.
La narrazione russa, uno strumento di guerra
Vivere in Ucraina anche solo per pochi giorni ti fa capire quanto le narrazioni russe, sulla denazificazione, siano strumenti di guerra ibrida, propaganda pura. Ho parlato con ragazze della comunità i cui nonni parlano ancora russo, per mera abitudine. Ma loro, le nuove generazioni, vogliono parlare ucraino. È una scelta e un’espressione di identità.
Il legame con questa terra, per gli ebrei, è cambiato. L’Ucraina è stata, nei secoli, terra di estremi. È stata la terra dei grandi maestri chassidici, del Baal Shem Tov, di Rabbi Nachman di Breslov e di oltre 2.000 Giusti tra le nazioni. Ma è stata anche la terra del massacro di Babyn Yar, dell’unità collaborazionista SS Galicia e dell’antisemitismo feroce. Ora è diventata il luogo in cui, dopo l’oppressione sovietica, le scuole ebraiche hanno riaperto, gli ebrei servono nelle più alte cariche pubbliche, come il presidente Zelensky, e si condivide, insieme ai non ebrei, il destino di una nazione invasa da una potenza nucleare. Un luogo dove essere ebrei e ucraini non siano due condizioni in conflitto ma due facce dello stesso impegno. Lo conferma anche Yosef Zissels, figura storica dell’ebraismo dissidente in epoca sovietica e oggi vicepresidente del Congresso Ebraico Mondiale: secondo lui, l’Ucraina può sopravvivere solo se saprà costruire una propria resilienza militare, come ha fatto Israele. Gli ebrei, dice, non sono un corpo estraneo ma parte viva della società.
A Kyiv non esiste davvero un dentro e un fuori la guerra. Esiste solo il fatto che è dappertutto. Ma insieme alla guerra, c’è anche la tenacia, la forza di un popolo che non vuole lasciarsi definire solo dal conflitto. C’è un’Europa che vuole vivere. Un ebraismo che non vuole essere solo memoria ma anche presenza e che mi ha fatto sentire parte di uno Shabat profondamente comunitario.