Dai sentieri dell’Asia alle strade di Tel Aviv

Mondo

di Ilaria Myr

«Dopo 2000 anni in esilio, avremmo perso la nostra comunità. Le nostre vite erano tutte incentrate su come emigrare in Israele e osservare i Comandamenti». Lhundjim ha lasciato nel 2007 il nord-est dell’India, dove è nato e cresciuto, per trasferirsi in Israele: per lui, come per molti altri membri dell’antica comunità indiana dei Bnei Menashé, fare l’aliyà è l’adempimento ad una promessa biblica. In tutto, sono 5000 i connazionali e correligionari di Lhundjim ad attendere il permesso per emigrare in Israele: 899 fra questi potranno farlo già in tempi brevi, grazie alla recente approvazione del governo israeliano, andando ad aggiungersi ai 2mila arrivati nello Stato Ebraico nel gennaio di quest’anno.

Quella dei Bnei Menashè – considerati da molti una delle tribù perdute”- sembrerebbe una storia simile a quella dei Falash Mura dell’Etiopia, con una grande differenza: l’aliyà degli ebrei indiani non è organizzata dal governo israeliano e dall’Agenzia Ebraica come accadde invece per i Falashà – arrivati in Israele con la memorabile Operazione Mosè, nel 1984, e con altre ondate successive-,  ma dall’organizzazione non profit Shavei Israel, il cui obiettivo è portare in Israele i gruppi che hanno antenati ebrei e che vogliono riconnettersi alle proprie radici.

Il percorso dei Bnei Menashé non è privo di ostacoli, dovuti soprattutto a tensioni con il governo indiano, che ha accusato Israele di volere attuare conversioni di massa e organizzare l’aliyà delle popolazioni del nord-est.

Gli eredi di Manasse

A scoprire la storia dei Bnei Menashé fu nel 1980 Rabbi Elyahu Avichail, fondatore di Amishav, l’organizzazione dedicata a trovare le tribù perdute di Israele. Studiando gli usi e i costumi di questi gruppi, Rav Avichail scoprì che Manmasil, il leggendario antenato delle tribù Kuki e Mizo – che compongono i Bnei Menashé insieme ai Chin – altro non era che tale Menasse, figlio di Joseph. Proprio dalla fine del XX secolo, molti discendenti di questa comunità – stanziata per lo più negli stati nord-orientali di Manipur e Mizoram – hanno cominciato a studiare e a convertirsi all’ebraismo dal cristianesimo, facendo un percorso inverso a quello dei loro antenati.

Quello dei Bnei Menashè non è però l’unico nucleo ebraico in India. Nell’epoca pre-indipendenza, infatti, vivevano nel Paese tre altri gruppi: quello di Cochin (nello Stato del Kerala), presente forse già nel 1° millennio nella penisola, quello dei Bnei Israel, stanziati sulla costa occidentale – e soprannominati dai locali “gli spremitori di olio del Sabato” per la loro osservanza dello Shabbat -, e quello dei Baghdadi, stanziatosi principalmente nelle città di Bombay e Calcutta.

Di questi ha parlato la studiosa Gabriella Steindler Moscati durante il convegno intitolato “Antiche e nuove vie della seta. Ebrei in Asia”, organizzato nel giugno scorso dall’Accademia Ambrosiana e dall’Associazione Italia-Israele, in collaborazione con Fondazione Italia Cina, istituto Italo-Cinese Vittorino Colombo, con il patrocinio del Cdec. «Si tratta di gruppi molto diversi fra loro negli usi e costumi – ha spiegato -. In particolare, i Baghdadi sono i più occidentalizzati, mentre quelli di Cochin, salvaguardando la fede ebraica, avevano elaborato un sincretismo religioso per inserirsi meglio nel contesto indiano. Sicuramente il commercio delle spezie ha portato molti mercanti e viaggiatori occidentali a venire in India fra il XVII e il XVIII secolo. Con la costituzione, poi della Compagnia delle Indie orientali, nel 1750, si consolidano le due comunità di Cochin e dei Bnei Israel».

L’arrivo dei Baghdadi avviene proprio in quest’epoca e quella successiva: fuggiti in India dalla zona della Persia e della Siria a causa delle persecuzioni islamiche, i baghdadi cominciano ad avere un ruolo importante nella società indiana: costruiscono anche maestose sinagoghe lungo rotta delle Indie, e in particolare a Bombay e Calcutta, dove nasce ufficialmente la comunità ebraica. Nel tempo, nelle grandi città arrivano anche gli altri ebrei di Bnei Israel e Cochin, andando ad ampliare la popolazione ebraica.

La situazione cambia nel XXI secolo con la questione dell’indipendenza e l’intensificarsi della lotta con i musulmani – siamo negli anni ‘40 – , che porterà poi alla fondazione del Pakistan.  In questi anni la comunità comincia a temere per la propria incolumità: si rende infatti conto che la potenza coloniale britannica fino ad allora aveva protetto i suoi interessi, ma con la caduta del regime coloniale cosa sarebbe accaduto? «La situazione macroscopica di disagio si segue attraverso il bollettino della comunità di Calcutta, Shemà – continua Steindler -, in cui compaiono molti appelli spaventati. In particolare nel 1947, con il degenerare della situazione politica in Bengala, che portò a scioperi e atrocità, la comunità comincia a chiedersi se non sia il caso di chiedere al governo britannico lo status di minoranza, in modo da avere una rappresentanza in sede governativa, che possa tutelarne i diritti». Intanto, arrivano in India anche gli ebrei che vivevano nella zona entrata a far parte del neonato Pakistan. Una volta costituiti lo Stato di Israele e quello indiano, molti ebrei, grazie anche al sostegno del nuovo primo ministro Nehru, riescono ad arrivare sani e salvi in Eretz Israel.

Una gerusalemme in cina

La situazione degli ebrei in Cina è assai diversa. «Notizie di ebrei in Cina si hanno già a partire dall’VIII secolo – ha spiegato durante il convegno Monsignor Pierfrancesco Fumagalli, vice prefetto e dottore della Biblioteca Ambrosiana, direttore della classe di studi dell’Estremo Oriente dell’Accademia -.È soprattutto con la nascita dell’Islam che molti ebrei provenienti dalla Persia si stabiliscono qui, in particolare a Kaifeng (regione dell’Hennan), dove nel 1163 viene costruita la prima sinagoga: anche per questo Kaifeng è considerata la Gerusalemme della Cina». Notizie sull’ebraismo in Cina si hanno anche dal Milione di Marco Polo, che racconta come alla corte dell’imperatore ci fossero buddisti, cristiani, musulmani ed ebrei. «Questa convivenza rientra nella concezione cinese di allora delle religioni, considerate come le dita di una mano: possono esistere finché obbediscono alla mano, cioè alle norme dell’Impero. Oggi lo stesso vale con il regime comunista: le religioni sono tollerate finché non vanno contro il partito».

Tutt’oggi ci sono ancora presenze di alcune famiglie ebraiche, a cui un imperatore Ming aveva dato dei soprannomi particolari: Ai, Shi (equivalente dell’inglese ‘Stone’), Gao, Jin (‘Gold’), Li, Zhang, e Zhao. Anche a Garbin, nella Manciuria settentrionale, si ha una comunità ebraica, che verso la fine del 1800 e all’inizio del 1900 diventa il centro politico, economico e culturale più grande e importante per la popolazione ebraica della regione (vedi anche Bollettino giugno 2013, pag. 4). L’occupazione giapponese della regione nord-occidentale della Cina, nel 1931, e la creazione del Manchukuo, l’anno successivo, ebbero un impatto negativo sulla comunità ebraica di Harbin, che solo nel 1929 contava 13.000 persone. Molti ebrei lasciartono quindi la città per trasferirsi a Tianjin, Shanghai e in Palestina, allora sotto Mandato Britannico.

Durante la seconda guerra mondiale, le comunità ebraiche locali si ripopolano grazie all’arrivo di molti stranieri fuggiti dall’Europa: esemplare è il caso dei 15.000 ebrei salvati a Shanghai – una delle poche località in cui non era richiesto il visto -, a cui è dedicato un Museo ebraico, tutt’oggi visitabile. Ma non mancano anche molti rifugiati provenienti dall’Urss. È in questi anni che molti missionari, desiderosi di ricostruire i rituali ebraici in Cina, riescono a portare al sicuro molti oggetti di valore.

Con l’avvento della Repubblica popolare, le religioni subiscono un trattamento molto limitato: solo cinque sono ufficialmente ammesse, e fra queste non c’è l’ebraismo.  Molti degli ebrei autoctoni emigrano dunque in Israele (504 solo fra 1948 e il 1951) o in Occidente: solo pochi rimangono in patria. «Al di là dei molti stranieri ebrei che vivono in Cina per lavoro, non esiste una comunità ebraica legata a quella originaria – commenta Mons. Fumagalli -. Nella società, però c’è molto interesse nei confronti dell’ebraismo, e non mancano i rapporti accademici fra Israele e le università cinesi (i rapporti diplomatici fra i due Stati sono iniziati solo nel 1992, ndr).

Ci sono però sempre più casi di giovani che risalendo alle proprie origini ebraiche decidono di emigrare in Israele, alla riscoperta delle proprie radici».