Allarme povertà

Italia

di Daniel Fishman

“L’immagine è sempre la stessa: sono al volante della mia auto ed è come se stessi guidando a vuoto. Pur facendo gli stessi gesti, invece di andare avanti, vado indietro”. Questa è soltanto una delle tante affermazioni registrate in questo réportage dedicato a singoli e famiglie della nostra Comunità in grave sofferenza per la crisi economica in atto. Quello che emerge, a gran voce, non è un semplice cahiers de doleances ma anche un’aperta richiesta di aiuto. Del resto, i temi di giustizia sociale e solidarietà sono prepotentemente emersi un po’ ovunque nel mondo in seguito alle massicce manifestazioni degli Indignados. In Italia, il Rapporto Caritas 2011 sulla povertà e l’esclusione sociale presentato a Roma a fine ottobre scorso, ha evidenziato una realtà in cui il 60% dei giovani si sono impoveriti negli ultimi 5 anni e 8,3 milioni di italiani vivono in povertà, ovvero il 13,8% della popolazione. I più colpiti? Le famiglie mono-genitore e quelle con più di tre figli.

Ma la novità sono i giovani, dice il rapporto, perché il 20 per cento di quanti si rivolgono alla Caritas per un supporto non ha ancora compiuto i 35 anni. Ciò che sta succedendo in Italia e in Occidente, è successo anche in Israele, -con 500 mila persone che chiedevano una migliore redistribuzione della ricchezza e maggiori servizi sociali-, e lo stesso dicasi per Milano e per il microcosmo della Comunità. Anche per la nostra kehillah vale la considerazione che una società o una collettività non equilibrata prima o poi esplode. E che la soluzione non è semplicemente nelle mani di qualche generoso benefattore, ma nel creare mentalità e sistemi che facciano sì che tutti si sentano responsabili del problema e della sua soluzione. Per questo la Comunità -intesa come Istituzione ma anche come singoli iscritti- dovrebbe soffermarsi a riflettere su questa nuova priorità sociale. Va da sé che impoverimento, indigenza e difficoltà economica hanno sempre avuto gravi ricadute relazionali, umane, psicologiche. La prima cosa da dire quindi è che parlare della propria condizione di povertà non è affatto facile, soprattutto perché gli ebrei sono abituati a darsi da fare, a rimboccarsi le maniche e a lottare per se stessi e per la collettività. Quest’ultima, a volte, è vista come una rete di salvezza, ma in altri casi può risultare un handicap. In una dimensione comunitaria infatti, molti si vergognano a manifestare il proprio status, per paura del giudizio degli altri. Questo fa sì che, paradossalmente, alcuni mantengano stili di vita che non possono più permettersi perché “non sembri che…”. La caduta d’immagine sommata al portafogli vuoto rischia allora di spalancare il baratro della depressione. “Al disagio economico si aggiunge un carico emotivo che chiede attenzione e ascolto. Per questo aiutiamo le persone a elaborare il cambiamento di status sociale. Cerchiamo di stimolare le energie interne e a individuare nuove opportunità e risorse. Li aiutiamo a pensare a un futuro possibile e non solo al passato mancato”, dice Dalia Fano, nuova responsabile comunitaria del Servizio Sociale.

LA DIGNITÀ DEL LAVORO

Quello che sono, quello che ero, quello che vorrei essere. Come ho fatto a ridurmi così? Ma che cosa mi è successo? Dove ho sbagliato? Ma allora non valgo proprio più nulla, sono davvero da rottamare? Queste le drammatiche, ricorrenti frasi che molti licenziati o senza lavoro, ripetono tra sé come un mantra sgomento e incredulo. “Eppure la difficoltà economica non sempre nasce dal lavoro. Prendiamo il caso di chi è divorziato: gente che paga un pesante prezzo, anche economico, per la propria separazione. Oltre al sostegno economico cercano un luogo dove poter elaborare il cambiamento, per andare oltre il vissuto di fallimento e ripensare a nuove progettualità di vita e di lavoro”, dice Fano. Perché il lavoro è dignità, è identità, è ruolo sociale, non solo sostentamento (parnassà). Per questo la perdita dell’occupazione può diventare sinonimo di fallimento personale. Un iscritto alla Comunità, 50 anni, ex dipendente di una multinazionale, ci racconta della sua difficoltà a stare a casa durante il giorno: dopo anni di ufficio, oggi prova un claustrofobico disagio fisico e un senso totale di irrealtà. “So di non avere nessuna colpa -ci dice-, ma ugualmente mi sento pesare addosso lo sguardo di chi mi sta vicino”.

“Il passaggio dall’assistenza al welfare -ci dice Dalia Fano-, presuppone la capacità di integrare l’aiuto puramente economico, con azioni progettuali che facilitino un rilancio professionale e offrano sostegno psicologico a chi si trova in queste condizioni”. Consulenza e welfare sono gli ambiti su cui Gabbai e Fano puntano per descrivere la loro linea di lavoro. È una definizione più ampia, più aperta, rispetto a quella evocata dal concetto di “assistenza”. Mentre quest’ultima richiama un intervento centrato sul bisogno, sullo star male, il welfare è invece la promozione di una condizione di benessere globale, un termine che implica un agire positivo. Che valorizza e punta sulle risorse e le potenzialità.

In una società sempre più tattica, liquida, mobile, tutti sembriamo condannati a dover ripensare noi stessi, a metterci in discussione all’infinito. Gli ebrei saranno anche più attrezzati di altri al nomadismo, a mettersi in gioco e a vedere il mondo da diversi punti di vista, ma rimane il fatto che non tutti, soprattutto se in età avanzata, hanno la capacità, l’energia, la forza vitale di reinventarsi professionalmente da soli. “Ed è qui che può entrare in gioco la Comunità -ci dichiara l’Assessore Claudio Gabbai-. O per lo meno ha il dovere di provarci. Non abbiamo grandi mezzi economici, ma abbiamo tante persone disposte ad attivarsi. Un gruppo di volontari si sta costituendo proprio per aiutare i giovani ad entrare nel mondo del lavoro (orientamento, colloqui d’esordio) e più in generale cercheremo di segnalare nuove opportunità lavorative. Non pensiamo solo a chi è in difficoltà, ma banalmente a creare condizioni di networking e mettere in contatto domanda e offerta”.

SOLIDARIETA’ CONCRETA

“Che senso ha che ci siano sontuosi banchetti di bar-mitzvà, con centinaia di invitati, quando a pochi passi da noi ci sono famiglie di ebrei che non hanno di che fare due pasti al giorno? Ognuno è libero di spendere come crede i propri soldi, ma penso sia ora che si diffonda una maggiore solidarietà tra tutti noi”, dice una giovane madre alle prese con gravi ristrettezze e impegnata -per non sfigurare- in uno slalom tra regali low-cost per cerimonie a cui è invitata. Un invito a ridimensionare i propri stili di vita. E a far entrare la parola solidarietà nella propria esistenza quotidiana. Proprio come suggerisce Dalia Fano. “Mi piace pensare al nostro Servizio come risorsa ma anche come opportunità concreta per tutti gli iscritti: per agire, progettare, attivarsi per gli altri. E’ importante evidenziare quanto ogni componente del sistema-Comunità sia inter-connessa, quanto cioè, ogni aiuto, sussidio, progetto, intervento attivato dal Servizio Sociale, sia possibile e pensabile solo con il contributo economico, ma non solo, di ciascun iscritto”.

L’idea “della grande famiglia comunitaria” emerge anche in questa testimonianza. Un commerciante ci accoglie sorridente nel suo negozio e ci dice: “Vede, è appena passato l’ennesimo emissario di una più o meno credibile yeshivà israeliana che chiede sostegno per aiutare gli studenti a… non fare il militare e a vivere di sussidi”, aggiunge con ironia. “Ecco, io penso che dobbiamo concentrarci su chi è in difficoltà a casa nostra, prima che fuori. E lo stesso dicasi per l’opera meritoria del KKL e del KH. Se è vero che siamo tutti una grande famiglia -e che prima c’era da aiutare lo Stato di Israele-, ora la priorità è quella di aiutare le nostre Comunità ed i loro iscritti. Mi chiedo allora: perché la Comunità insieme a questi Enti non si mettono a tavolino per studiare un progetto comune su Milano, che utilizzi i milioni di euro che ogni anno vengono raccolti ma inviati in Israele?”

Il discorso non è però da inquadrarsi solo in termini di assegnazione di budget e in chiave puramente economica. Ci sono tante altre maniere per rendersi utili e per creare valore.

“Pur avendo ottenuto ottimi risultati dal risanamento finanziario -precisa Claudio Gabbai-, come Comunità non abbiamo ancora la forza e le risorse che vorremmo mettere in campo. Ma qualcosa si può fare. Un gruppo di professionisti ha proposto soluzioni di job opportunities. La rete di relazioni che abbiamo intorno a noi è un’importante risorsa da attivare”. Una giovane coppia, entrambi disoccupati, raccontano di una iniziativa con la quale la Comunità ha aiutato le famiglie a fare la spesa con buoni acquisto prepagati. “Interventi utilissimi -dice lei- da attuare anche con i buoni acquisto da spendere in negozi di persone vicine e amiche della Comunità. Ma altrettanto importanti sono anche le segnalazioni di lavoro, di ricerca di consulenze, anche part-time” -conclude lui-”.

“Hanno perfettamente ragione -commenta Claudio Gabbai-. Dobbiamo garantire nuova dignità e sostegno economico anche attraverso innovative sperimentazioni; in questo senso va letta l’idea della vendita di carne kasher in Comunità a prezzi calmierati, un’iniziativa che si sta consolidando con successo, con sempre di più gli acquirenti”. Interventi differenziati che devono essere frutto di un cambio di mentalità, sembra suggerire un anziano iscritto, rimasto vedovo anni fa. “Ho molto tempo libero, frequento diverse sinagoghe e le lezioni di diversi Rabbanim. Incontri di qualità, con standard molto alti. Ma a volte ho la sensazione che ci sia un progressivo scollamento, un distacco dalla realtà, quella che la gente vive tutti i giorni, con le gravi preoccupazioni che la crisi ha generato. Si continua a parlare di averot, di peccati, di dettagli di halachà; ma ancora non ho sentito nessuno rivolgersi alle molte famiglie in difficoltà a sbarcare il lunario a fine mese. Questo discorso non vale solo per i Rabbini, ma anche per i Consiglieri e per ogni singolo iscritto”. Una stimolante chiave di lettura su se sia giusto farcela da soli o dipendere da un aiuto esterno, la fornisce un grande maestro del passato, Rabbi Akivà. Gli chiesero: “Rav, perché esiste la povertà nel mondo?”. La risposta del rav è stata che Dio vuole che l’uomo lotti e che sia creativo, vivendo il processo arduo che comportano le undici azioni, -dall’arare all’infornare-, che servono per la produzione del pane. Un compito personale dunque, per completare e “ri-creare” il processo di creazione iniziato dall’Altissimo. Ma questo impegno personale avrà un senso -aggiunge il Maestro Akivà- soltanto se, parallelamente, tutti cercheranno di perfezionare il mondo attraverso la ricerca di un migliore equilibrio generale, anche economico. Perché la felicità di ciascuno potenzia, innalza la felicità di tutti.