Quando il prezzo delle uova decide le elezioni

Israele

di Aldo Baquis

Nell’imminenza delle elezioni politiche del gennaio 2013, che cosa preoccupa gli israeliani? La minaccia nucleare iraniana? Il gelo nelle relazioni con i palestinesi? Il futuro dei rapporti con gli Stati Uniti, dopo la rielezione di Barack Obama? Il rafforzarsi delle corrente radicali islamiche nei Paesi vicini? Mentre si attende l’inizio della campagna elettorale vera e propria, si può già dire che sui grandi temi della politica estera e della sicurezza di Israele le posizioni dei diversi partiti non sono distanti. Tutti paventano l’acquisizione di armi nucleari da parte dell’Iran, tutti sono in ansia per il futuro della pace con l’Egitto con la nuova amministrazione di Mohammed Morsi. Una possibile eccezione riguarda la necessità di rilanciare negoziati di pace con i palestinesi. Ma anche su questo punto la sinistra ammette che nell’attuale stato di debolezza del presidente dell’Anp Abu Mazen sarebbe difficile raggiungere con lui -anche se la “colonizzazione” fosse congelata-, accordi che godano del sostegno dell’intero popolo palestinese. L’ostacolo di Hamas -sempre più saldo al controllo di Gaza e del suo 1,7 milione di abitanti-, è difficilmente superabile e le voci di quanti suggeriscono di aprire un canale di comunicazione diretto con quella organizzazione sono per ora timide e sparute.

Mentre il confronto ideologico fra il blocco dei partiti di destra e quelli di centro-sinistra appare in sordina,  torna alla ribalta la questione sociale. È vero che le grandi manifestazioni popolari dell’estate 2011 non si sono ripetute nel 2012. Ma gli attivisti extraparlamentari che le hanno animate allora stanno gradualmente facendosi strada nei partiti classici. Itzik Shmul (leader del movimento degli studenti universitari) e Stav Shafir (portavoce degli “indignados”), si sono candidati nelle file del partito laburista di Shelly Yehimovic, assieme al professor Yossi Yona, uno degli ideologhi della protesta, docente di psicologia, in prima linea tra gli indignados con richieste radicali in fatto di giustizia sociale. Il professor Manuel Trachtenberg -consigliere di diversi ministri, che nel settembre 2011 consegnò al governo un ponderoso rapporto su sperequazioni e ingiustizia sociale, nonché sui provvedimenti più urgenti per combatterla-, potrebbe pure candidarsi alla Knesset, in una nuova lista di centro.

Questi venti di cambiamento si avvertono anche nel partito ortodosso Shas (dove il popolare ministro dell’edilizia Ariel Atias è entrato nel “terzetto” del vertice, assieme al rabbino populista Arieh Deri e ad Ely Yishai), e anche nel Likud. A novembre il partito di Benyamin Netanyahu -che appare lanciato verso una netta vittoria, avendo siglato un patto elettorale con il partito della destra radicale Israel Beitenu di Avigdor Lieberman- è apparso sull’orlo di una spaccatura, proprio per la cosiddetta “questione sociale”. L’esponente più acclamato nella sua Convention di fine ottobre è stato un personaggio poco noto all’estero: il ministro per le comunicazioni (e per le questioni sociali) Moshe Kahlon. “Moshe, Re di Israele’’, hanno scandito i tremila delegati, quando ha fatto la sua apparzione. All’origine di tanto entusiasmo c’è la strenua lotta condotta da Moshe Kahlon -cresciuto in una famiglia di umili origini e che in passato ha fatto anche il pescatore-, contro le grandi compagnie dei telefoni cellulari e contro le loro esose tariffe. Alla fine ha vinto lui, l’esponente del Likud venuto dalle periferie, costringendo quelle compagnie ad abbassare le bollette. Una vittoria che è stata plaudita da tutti, nonché concretamente percepita nei portafogli di ogni famiglia di Israele.

Pur essendo del Likud, Kahlon è un eterodosso: perché non ritiene che la politica economica di Netanyahu e del ministro delle finanze Yuval Steinitz sia corretta. Teme in particolare che la Finanziaria del 2013 riservi ingenti tagli al Bilancio statale, con una conseguente riduzione dei servizi garantiti al cittadino. “In questo modo -ha avvertito- rischiamo di perdere il potere’’. Dopo essersi reso conto che Netanyahu comunque non gli avrebbe affidato il Ministero delle finanze nel prossimo governo, Kahlon ha scelto di concedersi una pausa dalla politica attiva. E sarebbe rimasto un episodio insignificante se nei corridoi del potere non si fosse sparsa la voce che Kahlon progettava di organizzare una nuova lista “di carattere sociale’’ che avrebbe fatto concorrenza al Likud. E così, i primi sondaggi di opinione hanno rilevato che l’oscuro Kahlon avrebbe potuto ottenere alle prossime elezioni 13-20 seggi dei 120 della Knesset. E dal canto suo, in definitiva, Kahlon si è reso conto che in breve tempo non sarebbe riuscito comunque a superare i gravi problemi organizzativi, e ha quindi rinunciato al progetto. Ma da quei sondaggi è apparso evidente che sono proprio le questioni sociali dell’inverno 2012 ad essere la principale tematica di interesse nonché il clou della scelta elettorale degli israeliani.

Ma andiamo con ordine. Innanzitutto, il costo delle case. In un Paese dove non esiste più l’edilizia popolare e le case in affitto sono relativamente poche e care, il costo della “prima casa” per le giovani coppie è un elemento costante di angustia nelle famiglie della piccola e media borghesia. Il governo afferma di aver dato inizio negli ultimi anni alla costruzione di una quantità elevata di nuovi appartamenti, un investimento statale immobiliare senza precedenti. Ma ancora i prezzi non accennano a calare.

Vengono, a ruota, le preoccupazioni per il lavoro e l’occupazione. Nelle zone periferiche alcune aziende sono state costrette a chiudere e per i licenziati non esistono possibilità concrete di trovare un impiego alternativo. A novembre ha fatto scalpore la crisi dello storico quotidiano Maariv, con il licenziamento di molte centinaia di dipendenti. Sottoposto alle ripercussioni della crisi in Europa, anche il mercato israeliano perde colpi e fra i responsabili all’economia si vedono volti sempre più corrucciati. E molti si chiedono se il boom economico degli ultimi anni non sia in realtà una bolla, oggi matura per scoppiare.

Infine c’è il continuo aumento dei prezzi dei generi di consumo. Per chi vive di uno stipendio modesto la sfida al supermarket è sempre più  frustrante. A fine novembre, chi si aspettava che l’attenzione dei giornali israeliani fosse dedicata ai funghi atomici in Iran ha trovato invece titoli allarmati sull’aumento -di alcuni centesimi- del prezzo delle uova.

Nuovi assetti dopo Gaza: un’analisi

Quanto sta accadendo a Gaza, non riguarda solo Israele e le aree circostanti, ma, come dice l’inviato del Corriere della Sera, Antonio Ferrari, «ha già prodotto le prime importanti conseguenze coniugandosi con le altre crisi regionali e raccordandosi con gli sconvolgimenti delle primavere arabe. Nulla sarà come prima in Medio Oriente, perché il terremoto sta producendo il riposizionamento degli attori internazionali». Nella sua analisi, Ferrari sottolinea la debolezza delle reazioni dell’Occidente, come l’America del neoeletto Obama, che mette in luce «il fatto che Israele ha il diritto di difendersi» o la Russia di Putin che «riaccese le passioni filo arabe» invita blandamente al “cessate il fuoco”; l’Europa, che pur condannando le violenze e le ostilità non sembra sbilanciarsi oltre. Ferrari pone una netta distinzione fra la cautela dell’Occidente e i nuovi scenari inediti e preoccupanti che si stanno producendo nei Paesi Arabi, con un’alleanza fra due «giganti divisi in passato da una invidiosa concorrenza e ora praticamente d’accordo su tutto», come l’Egitto di Mohamed Morsi, che proviene dai Fratelli Musulmani, e la Turchia di Tayyip Erdogan, che dopo aver rotto qualsiasi rapporto con Israele «vuole diventare il pivot della politica mediorientale in nome dell’Islam». Di grande importanza in questo nuovo assetto politico è il Qatar, «Stato plurimiliardario e molto zelante, sempre pronto a sostenere i fratelli musulmani sunniti». Ma resta il fatto che per il giornalista del Corriere «in realtà Egitto, Qatar e Turchia sono vicinissimi ai palestinesi di Gaza». A sostegno di Gaza anche Paesi più “neutrali”, come la Tunisia: il Ministro degli Esteri tunisino Rafiq Abdel Salem, ha visitato il quartier generale di Hamas. Il presidente dell’Anp, Abu Mazen, invece «accusa Israele e lancia uno sterile appello alla riconciliazione con Hamas». Cosa succede in Israele? Staordinaria popolarità per Netanyahu, che attira i consensi anche di quelli che “politicamente lo avversano”, ovvero gli intellettuali progressisti israeliani. In conclusione, Ferrari sottolinea come i razzi verso Gerusalemme costituiscano un unicum: nonostante siano caduti nell’area della Cisgiordania, sono stati rivendicati dalla brigata Al Qassem,  braccio armato di Hamas.