Israele: i primi 100 giorni del nuovo governo. Sarà possibile trovare un accordo?

di Avi Shalom

La stabilità politica messa a rischio dai recenti sanguinosi attentati palestinesi e dalle manifestazioni di piazza. E poi il tema della sicurezza, il caro vita, la svalutazione dello Shekel, la Riforma della Corte Suprema… E che dire dell’accordo tra Arabia Saudita e Iran, sotto l’egida della Cina, che indebolisce Israele? Un quadro delicato e complesso. In attesa di una risoluzione condivisa

Dopo cinque stremanti tornate elettorali, finalmente il voto del primo novembre ha dato un risultato netto: un successo per Netanyahu, alla guida di una compatta coalizione delle destre, con 64 deputati sui 120 della Knesset. E la stabilità politica. Il 29 dicembre scorso, con il varo del governo, il premier definì quattro obiettivi prioritari. 1. Il contenimento dell’Iran. 2. Il ripristino della sicurezza nelle strade di Israele. 3. La lotta al caro vita. 4. Un formidabile allargamento del “cerchio della pace”, forse anche con l’Arabia Saudita.

 

Ecco la cronaca dei primi cento giorni del governo, dall’inizio 2023, una succinta e cronologica selezione del susseguirsi degli eventi, per fare il punto.
3 gennaio 2023. Il ministro per la sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir (leader del partito di estrema destra Potenza ebraica) compie una visita sulla Spianata delle Moschee, ossia sul Monte del Tempio. Reazioni internazionali immediate, in particolare nel mondo arabo. Netanyahu assicura: «Lo status quo non cambierà».
4 gennaio. Il Ministro della giustizia Yariv Levin (Likud) illustra alla televisione quella che chiama una Riforma necessaria per la governabilità del Paese, come prima fase di una più vasta “riparazione del potere giudiziario’’. Prevede un rafforzamento del potere esecutivo e del Parlamento a scapito del potere giudiziario. Un cambiamento della commissione per la nomina dei giudici della Corte Suprema, una “clausola di deroga” della Knesset rispetto alla Corte Suprema, e altro.
5 gennaio. Giudici della Corte suprema annullano la nomina del leader del partito Shas, Arye Deri, condannato due volte per reati fiscali, alle cariche di Ministro della sanità e interni.
7 gennaio. Decine di migliaia protestano contro la riforma di Yair Levin. Il deputato Zvi Fogel (Potenza ebraica) sostiene che le dimostrazioni sono state fomentate dai leader dell’opposizione Yair Lapid e Benny Gantz. «Hanno tradito la patria. Ci sono le basi per il loro arresto», dichiara.
12 gennaio. La presidentessa delle Corte Suprema, Ester Hayut, accusa Levin di voler spezzare il sistema giudiziario e di voler infliggere “un colpo mortale alla democrazia israeliana’’. L’onorevole Taly Gotliv (Likud) chiede il licenziamento in tronco di Hayut e dell’avvocatessa generale di Stato, Gali Baharav-Miara.
15 gennaio. I programmi educativi sono consegnati al leader del partito ebraico Noam, Avi Maoz.
16 gennaio. Yair Levin ammette che all’origine dei piani di riforma del potere giudiziario c’è anche l’incriminazione di Netanyahu per “corruzione, frode ed abuso di potere’’ che – afferma – “in ampi strati della società ha generato sfiducia verso la magistratura’’. Intanto la Corte Suprema annulla le nomine ministeriali di Deri. Deri replica accusandola di aver compiuto un atto di prevaricazione “contro l’esplicito volere dei 400 mila elettori di Shas’’.
21 gennaio. Una manifestazione a Tel Aviv: scendono 100 mila persone.
25 gennaio. 300 economisti israeliani di fama avvertono che i progetti del governo rischiano di avere dure ripercussioni sulla economia del Paese. Analogo pessimismo fra i dirigenti delle banche.
28 gennaio. Attentato terroristico palestinese a Gerusalemme: sette morti.
1 febbraio. Yair Levin preannuncia che i giudici della Corte Suprema dovranno andare in pensione e fare spazio a nuove nomine.
2 febbraio. Netanyahu va a Parigi. La accoglienza di Macron è gelida.
9 febbraio. Il partito ortodosso Shas propone “fino a sei mesi di carcere’’ per chi si presenti al cospetto del Muro del Pianto “con abiti immodesti’’. Il leader del partito ortodosso Degel ha-Torah, Moshe Gafni, chiede che gli studenti di collegi rabbinici ricevano lo stesso trattamento garantito ai soldati israeliani combattenti. «In futuro il 50 per cento dei giovani si arruoleranno, il 50 per cento studieranno nei collegi rabbinici». Le proposte degli ortodossi generano risentimento fra i riservisti, che minacciano insubordinazioni. «Che vadano al diavolo – replica pubblicamente il Ministro delle comunicazioni Shlomo Karhi (Likud). – Possiamo farcela anche senza di loro».
10 febbraio. Attentato terroristico a Gerusalemme. Tre morti, fra cui due bambini. Ben Gvir ordina immediatamente una vasta “operazione militare contro il terrorismo’’. Ma è costretto ad annullarla perché mancano obiettivi concreti. L’onorevole Gotliv accusa la Presidentessa delle Corte Suprema Hayut di essere responsabile dell’attentato (per aver “ostacolato’’, a suo parere, la reazione delle forze di sicurezza).
12 febbraio. Il capo dello Stato Isaac Herzog preannuncia un piano di compromesso fra governo ed opposizione per la Riforma giudiziaria.
18 febbraio. Nuova manifestazione a Tel Aviv. Arrivano in 100 mila.
20 febbraio. Il capo dello Shin Bet (sicurezza interna) Ronen Bar avverte: “È in gioco la stabilità dello Stato”.
22 febbraio. Sul tavolo, nuovi disegni di legge per la limitazione dei poteri della Corte Suprema e per il ripristino di Deri al governo. Si lavora anche a una estensione dei poteri dei Bate’i Din e delle corti rabbiniche, e al divieto d’ingresso negli ospedali (durante Pesach) di prodotti lievitati. Un’apposita commissione stabilisce che sarà lo Stato ad accollarsi le spese di manutenzione dei due alloggi privati di Netanyahu, a Gerusalemme e a Cesarea.
25 febbraio. Le manifestazioni si estendono. Si parla di 300 mila persone.
26 febbraio. Attentato a Huwara, cittadina palestinese a sud di Nablus. Due fratelli ebrei sono uccisi a bruciapelo da un palestinese armato che riesce a fuggire. Immediata la reazione di centinaia di coloni del vicino insediamento di Har Bracha che a Huwara appiccano incendi a case, ad automobili in sosta e a negozi. L’esercito ammette di aver perso il controllo della situazione e non compie arresti. Il ministro delle finanze Bezalel Smotrich (leader del partito Sionismo religioso) dice che «Huwara dovrebbe essere cancellato. Ma non da privati cittadini, vietato farsi legge da soli». Quando, due settimane dopo, Smotrich andrà in visita a Washington, troverà un gelo assoluto. Nessun esponente di governo gli stringerà la mano. Intanto il Ministro per la diaspora Amichay Shikly (Likud) respinge le critiche Usa alla Riforma giudiziaria del governo Netanyahu: «Che si impiccino degli affari loro», dice.

Malgrado il netto risultato elettorale di tre mesi fa e l’auspicata stabilità elettorale invocata, il quadro resta complesso e delicato, il Paese diviso in due. Pochi mesi dopo la formazione del governo, la società israeliana è lacerata come mai prima d’ora. In Parlamento sono state presentate oltre 100 proposte di legge: 36 relative alla riforma giudiziaria, 23 ai diritti civili e alla loro limitazione (ad esempio sugli scioperi e sulla libertà di stampa), 19 sul rafforzamento di istituzioni religiose, 13 relative alle elezioni, 12 all’educazione, 2 alla politicizzazione dei servizi pubblici. Il governo vuole fra l’altro assumere un controllo diretto sull’Ufficio centrale di statistica e sulla Biblioteca Nazionale. Anche l’economia ha subito un duro scossone, espresso dalla fuga di capitali e dalla svalutazione dello shekel. Il caro-vita e le manifestazioni di protesta sono sempre più estese, il malessere è penetrato anche nelle forze di sicurezza. Da Stati Uniti e dall’Unione europea giunge la preoccupazione circa “l’affinità nei valori democratici’’ che è sempre stata alla base dei legami di amicizia. L’ex capo dello Shin Bet (sicurezza interna) Nadav Argaman avverte contro il “rischio di una dittatura’’.

I quattro obiettivi enunciati da Netanyahu il 29 dicembre, all’indomani delle elezioni, sono un ricordo, passati in secondo piano. Il ripristino della sicurezza nelle strade non c’è stato (14 israeliani assassinati negli attentati palestinesi e 37 arabi israeliani uccisi in episodi di criminalità). La lotta al caro vita è stata accantonata. L’Arabia Saudita – piuttosto che avvicinarsi ad Israele – ha preferito riallacciare le relazioni diplomatiche con il regime dell’Iran e ha chiarito che il suo territorio non farà da punto di partenza per attacchi al territorio iraniano. Ed il contenimento dell’Iran?

Nella sua prima intervista giornalistica (a Yediot Ahronot), l’ex capo della Commissione per la energia atomica di Israele, Zeev Snir (l’uomo che custodisce i segreti nucleari di Israele e che più di tutti conosce quelli di Teheran) ha affermato: «Gli iraniani e i Paesi arabi guardano increduli a quanto succede qua. Non hanno bisogno di armi atomiche per distruggerci – tutto quello che devono fare è aspettare e vedere come ci colpiamo da soli». Snir ha anche aggiunto: «Senza il sostegno militare e diplomatico degli Stati Uniti, Israele non potrebbe sopravvivere». A metà marzo il presidente Herzog ha messo sul tavolo una Piattaforma del popolo con idee di compromesso sulla riforma giudiziaria, che sono state respinte dal governo. Herzog è rimasto con la bocca amara. Eppure la speranza di raggiungere un accordo non è vana, ed è l’ultima a morire.