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Obama ha scaricato con preoccupante disinvoltura l’alleato Mubarak. L’Iran e gli sciiti gongolano. Hamas guadagna terreno su Abu Mazen e minaccia di boicottare le prossime elezioni palestinesi. Una situazione fluida e incerta in cui Israele ha bisogno più che mai di rafforzare i legami con l’Europa e con ogni possibile alleato
Una profonda revisione delle fondamenta della propria politica regionale e delle necessità di lunga durata delle proprie forze armate è scattata in Israele alla fine di gennaio, mentre l’amico ed alleato Hosni Mubarak veniva defenestrato da un formidabile connubio di pressioni interne ed esterne. “Un vero terremoto” esclama con trasporto la stampa locale, e per una volta i superlativi non sono fuori posto. Il Vicino Oriente del dopo-Mubarak è un “Brave New World” dove si moltiplicano le insidie e i pericoli per lo Stato ebraico.
1. EGITTO – La giunta militare che ha assunto il potere per un periodo di transizione di almeno sei mesi assicura che manterrà fede agli accordi di pace con Israele firmati oltre 30 anni fa.
Hanno avuto effetti benefici per entrambi i popoli e dunque la logica vuole che restino in vita. Ma quegli accordi sono fumo negli occhi per i Fratelli Musulmani, a tutt’oggi la forza politica esterna al regime di Mubarak più organizzata in Egitto. Anche negli ambienti laici egiziani, l’astio verso Israele ha spesso assunto in passato forme di parossismo. Anni fa in Egitto andava per la maggiore una canzoncina del bardo Shaaban Abdel Rahim intitolata: “Io odio Israele”. Analogo astio è stato segnalato nell’industria del cinema, nella stampa e nella letteratura. Faruk Husni, ex candidato egiziano alle guida dell’Unesco, era celebre per aver dichiarato la propria volontà di dare fuoco ai libri israeliani. Le forze armate egiziane – si afferma in Israele – comprendono bene che il trattato di pace con Israele è una componente importante per la sicurezza del loro Paese.
Ma quale sarà l’atteggiamento di un Egitto che riuscisse darsi una nuova leaderhip civile mediante elezioni democratiche?
Ufficialmente in Israele si rileva che tanto più un Paese è democratico, tanto più è probabile che sia interessato alla pace. Ma sul piano pratico viene dato per scontato che, nella migliore delle ipotesi, fra i due Paesi ci sarà una pace gelida.
2. HAMAS – Quando si passa dagli aspetti formali a quelli pratici, la prime ripercussioni della rivolta egiziana si sono avvertite a febbraio nel Sinai settentrionale dove una potente esplosione ha messo fuori uso il gasdotto con cui Israele si approvigionava di gas egiziano. Quella struttura strategica si trova in una zona dove adesso alzano la testa tribù beduine armate legate al contrabbando di armi verso Gaza e Hamas. Con l’affievolimento del controllo da parte del Cairo, il Sinai – dove secondo l’intelligence di Israele operano da tempo elementi legati ad al-Qaida e agli Hezbollah – rischia di diventare una comoda zona di manovra per forze destabilizzatrici, ispirate ad esempio dall’Iran. La minaccia militare di Hamas alle retrovie israeliane potrebbe rapidamente crescere.
3. ANP – Di contro, proprio i palestinesi pragmatici dell’Anp sembrano avviati verso tempi grami. Il presidente Abu Mazen e i suoi negoziatori sono stati accusati a gennaio da Al-Jazira (con la pubblicazione selettiva e tendenziosa di documenti rubati negli uffici dell’Olp) di essere stati arrendevoli nei negoziati con Israele. La caduta di Mubarak – con cui si consultava di frequente e che fungeva da mediatore fra Fatah e Hamas – lo ha ulteriormente indebolito. Per allentare la pressione della base, l’Anp ha indetto elezioni presidenziali, politiche e locali che dovrebbero avere luogo verso l’estate. Hamas ha subito fatto sapere che metterà i bastoni fra le ruote.
4. GIORDANIA – L’altro pilastro regionale di pace per Israele trema visibilmente. La minoranza beduina, su cui si fonda il regime hashemita, è sempre più insofferente alla casa reale e al suo orientamento filo-occidentale. L’atteggiamento del presidente Barack Obama ha inoltre inquietato lo stesso re Abdallah, che ha provveduto a un rimpasto ministeriale, nella speranza di tenere sotto controllo le forze eversive che potrebbero spuntare fra i Fratelli Musulmani o nella popolazione palestinese (il 65 per cento degli abitanti della Giordania).
Influenzato da questo clima, il nuovo ministro giordano della giustizia ha dichiarato di vedere ormai in Israele “un Paese nemico”.
5. LIBANO / IRAN – Nei mesi (e forse negli anni) seguenti alla defenstrazione di Mubarak, l’Egitto – maggiore Paese sunnita del Medio Oriente – sarà necessariamente costretto a dedicare la maggiore attenzione alle questioni interne. Queste sono eccellenti notizie per l’Iran e per le minoranze sciite sparse per la Regione. Esultano in particolare gli Hezbollah libanesi che sono riusciti ad abbattere il governo sunnita e filo occidentale di Saad Hariri, per imporre un premier a loro gradito.
Tradizionalmente succubi dei preponderanti sunniti, per la prima volta gli sciiti hanno adesso l’occasione di imporre la loro visione su scala regionale. Nell’ottica degli Hezbollah, gli Stati Uniti perdono terreno in Turchia, Libano ed Egitto. Dunque, concludono, gli spazi di manovra di Israele sono sempre più ristretti.
6. USA – Il ruolo degli Stati Uniti lascia sbigottiti i dirigenti israeliani, molti dei quali (dal Likud ai laburisti) sono inclini a pensare che il presidente Barack Obama – che ha disinvoltamente disconosciuto il suo tradizionale alleato Mubarak – non comprenda affatto il Medio Oriente. La sua politica ha già avuto primi effetti negativi in Giordania e in Arabia Saudita, due Paesi che finora (assieme all’Egitto) erano stati in prima linea nelle attività di contenimento dell’Iran nella Regione.
7. ISRAELE – Con il ridursi dei sostegni filo-occidentali nella Regione, il peso specifico di Israele (“unico punto di stabilità fra il Pakistan e il Marocco”, secondo Benyamin Netanyahu) dovrebbe crescere. Ma molto di più crescono i pericoli attorno ai suoi confini. Più preoccupante ancora l’isolamento diplomatico, conseguenza anche della incapacità del ministro degli esteri Avigdor Lieberman di costruire consensi attorno alla politica del suo governo, e anzi protagonista di frequenti di baruffe diplomatiche. La politica di colonizzazione in Cisgiordania e la estensione della presenza ebraica a Gerusalemme Est hanno molto infastidito le cancellerie di diversi Paesi, anche amici di Israele, e adesso nel momento del bisogno il premier Netanyahu trova attorno a sé un misto di apatia e di freddezza. Potrebbe dunque rendersi necessaria adesso a Gerusalemme una profonda autocritica, e la costituzione di un nuovo governo più capace di dialogare con la comunità internazionale.