Gaza, il fuoco sotto la cenere

Israele

di Luciano Assin

Gaza-12È passato poco più di un anno dall’inizio dell’operazione Zuk Eitan (roccia possente, in ebraico), conosciuta all’estero come Protective Edge-Scudo protettivo, un’occasione appropriata per cercare di delineare i risultati raggiunti da entrambe le parti, cercando contemporaneamente di evitare la patente di vincitori e vinti che in casi del genere è senz’altro inappropriata. Che lezione o analisi possiamo trarne a 13 mesi di distanza? Cominciamo a dire che le operazioni militari dovrebbero avere il principale scopo di migliorare la situazione politica e strategica dei contendenti anche se il più delle volte le perdite umane e le sofferenze della popolazione civile non giustificano i risultati raggiunti. Cominciamo da Israele: lo Stato ebraico, a seconda di diversi commentatori militari, avrebbe rafforzato la sua deterrenza militare. La politica della mano pesante, basata su pesanti bombardamenti delle infrastrutture militari annidate in mezzo alla popolazione civile, che aveva già dato i suoi frutti nel 2006 contro Hezbollah in Libano ha portato il suo devastante effetto anche su Hamas, ma a differenza del “Partito di Dio” che è una fra le diverse componenti del panorama politico e militare libanese, la leadership di Gaza non ha bisogno di rendere conto a nessuno avendo così ha un maggiore spazio di manovra.
Il problema di Nethanyau e dell’esercito israeliano è definire il limite di sopportazione oltre il quale è impossibile abbozzare. Dalla fine degli scontri dell’anno passato sino ad oggi sono cadute nel territorio israeliano una decina di razzi, quasi tutti esplosi in aree disabitate, in aggiunta ci sono stati otto agguati di arma da fuoco. Numeri relativamente bassi se paragonati al recente passato, ma una possibile escalation è sempre in agguato. Fonti bene informate rivelano di tanto in tanto l’esistenza di trattative segrete fra Hamas e Israele per la creazione di una Hudna, l’equivalente di un armistizio della durata di dieci anni. Sarebbe interessante scoprire fino a che punto Israele sia disposto ad arrivare e con quali limitazioni per la controparte.
La carta vincente, da parte israeliana, è stata senz’altro il successo operativo del sistema missilistico israeliano, che insieme alle “stanze protette”, i mamad, presenti in ogni appartamento ha ridotto al minimo le perdite civili. Una difesa del genere ha consentito al governo di operare senza essere troppo influenzato dall’opinione pubblica e dai media sempre molto sensibili sul tema delle perdite umane. Meno soddisfacente sono stati invece i risultati raggiunti contro le numerose gallerie sotterranee scavate dai palestinesi per incursioni a sorpresa contro obiettivi militari e civili all’interno del territorio israeliano.
In questo campo Israele ha molta meno autonomia politica dell’Egitto che ha risolto il problema delle gallerie presenti sul suo territorio radendo al suolo una fascia di 500 metri lungo il confine con la striscia di Gaza con il conseguente abbattimento di migliaia di case palestinesi.
In definitiva, Israele non ha migliorato di molto la sua situazione anche se è riuscito a gestire in maniera ragionevole un conflitto indesiderato. Il modesto risultato raggiunto obbligherà Israele a delle scelte militari molto più estreme nel prossimo round a venire.
E adesso Hamas. Mashal e compagni hanno realizzato pochissimi risultati, nella migliore delle ipotesi. Israele continua a regolare l’apertura dei vari valichi secondo gli stessi criteri antecedenti il conflitto, il valico egiziano di Rafiah è chiuso la maggior parte del tempo in risposta ai numerosi attentati perpetuati da forze palestinesi nei confronti dell’esercito egiziano. La chiusura delle innumerevoli gallerie attraverso le quali passavano merci civili, armi ed equipaggiamenti militari ha ridotto drasticamente una delle principali fonti di reddito dell’organizzazione.
La tanto sbandierata creazione di un porto autonomo all’interno della Striscia è ben lungi da una sua realizzazione e anche le promesse di aiuti miliardari da parte dei ricchi Paesi arabi rimangono per il momento solo sulla carta. Il solo risultato degno di nota da parte palestinese è stato quello di aver saputo sfruttare al meglio il fattore campo mantenendo una certa compattezza dal punto di vista militare e politico.
Secondo alcune indagini statistiche interne, la percentuale di coloro che interpretano l’operazione Protective Edge come una vittoria palestinese è diminuita dal 66% al 47%, il problema è che i sostenitori del Califfato islamico raggiungono il 14%, quasi il doppio rispetto alla media dei diversi paesi arabi. Numeri del genere sono un chiaro sintomo della frustrazione palestinese, e la volontà di rivincita in questi casi non può che portare ad un salto di qualità dal punto di vista terroristico.
Rapporti dettagliati dell’intelligence israeliana affermano chiaramente che già nel corso del conflitto si era creata una spaccatura fra l’ala politica e quella militare di Hamas. I gruppi armati premevano per utilizzare immediatamente le gallerie esistenti anticipando così di qualche mese il progetto di un grosso attentato nei confronti di uno dei kibbutzim confinanti con la Striscia. Il tentennamento della leadership politica ha permesso agli israeliani di capire quali fossero le intenzioni palestinesi riuscendo così ad evitare quello che avrebbe senz’altro trasformato lo scontro in una chiara vittoria palestinese.
Come se non bastasse, Hamas ha anche parecchi grattacapi sul fronte interno: crescono i gruppuscoli secessionisti sempre più vicini al fronte dell’Isis che ignorano volutamente le direttive del potere centrale, una situazione che non fa che allargare la tensione, cosa che in questo momento la dirigenza di Gaza non può permettersi. La sensazione è che l’isolamento di Hamas continui, senza grossi sbocchi politici all’orizzonte.
Nel caso abbastanza improbabile che non venga raggiunta una tregua, il prossimo scontro è solo questione di tempo, ognuna delle parti in campo ha già pronto un piano militare basato su un colpo a sorpresa. Hamas cercherà di organizzare un attentato di grosse proporzioni da esibire come simbolo di vittoria, mentre Israele dovrà decidere se il movimento islamico al potere sia il minore dei mali e quindi limitarsi a contenere i possibili attacchi. In caso contrario, l’opzione militare non può che prevedere un’operazione su vasta scala destinata ad occupare la striscia di Gaza fino ad eliminare politicamente e fisicamente la leadership di Hamas. Ma un piano del genere non può funzionare se non si costruisce prima una credibile alternativa politica alla quale affidare il comando.