Al Parenti, l’Associazione Milanese Pro Israele a congresso. Un’analisi su Israele dopo il 7 ottobre

Eventi

di Nathan Greppi
Quando la sala è diventata piena, ci si è riuniti per ascoltare tutti insieme gli inni nazionali italiano e israeliano. Rispetto agli altri anni, tuttavia, vi era una differenza: per la prima volta dalla sua fondazione, avvenuta il 6 febbraio 2017, l’AMPI (Associazione Milanese Pro Israele) ha tenuto il suo congresso annuale mentre Israele si trova in guerra, e non una guerra come quelle del passato.

In sostanza, è in un clima non facile che si è tenuto il VI Congresso dell’AMPI lunedì 5 febbraio, al Teatro Franco Parenti, nella stessa sala dove venne inaugurata l’associazione nel 2017. Ospite d’onore della serata, la giornalista italo-israeliana Sharon Nizza.

Lavori congressuali

Nell’introdurre il congresso, il presidente AMPI Alessandro Litta Modignani ha riportato i saluti arrivatigli dall’Ambasciatore israeliano in Italia Alon Bar e dal Sindaco di Milano Giuseppe Sala.

In seguito, ha introdotto una mozione generale: oltre a condannare i barbari attacchi di Hamas del 7 ottobre, nonché i loro sforzi congiunti con l’Iran, gli Hezbollah e gli Houthi per distruggere Israele, Litta Modignani ha voluto altresì proporre di fare fronte comune con quelle associazioni che si battono per l’Ucraina aggredita dalla Russia di Putin e per le donne che si battono per i loro diritti in Iran e Afghanistan. L’idea è che la guerra in atto faccia parte di un conflitto più ampio, che vede le democrazie da una parte e le autocrazie (Russia, Cina, Iran, ecc.) dall’altra.

All’interno di questa mozione, è stata inserita anche la condanna verso quelle frange estremiste all’interno della società israeliana, foriere di un nazionalismo religioso estremo, che con il loro operato prestano il fianco agli odiatori d’Israele.

Verso la fine dell’evento, prima delle votazioni del direttivo AMPI, è intervenuto anche il deputato Andrea Orsini, membro fondatore dell’Associazione e che ha portato avanti istanze filoisraeliane nella Commissione Esteri della Camera.

La giornalista Sharon Nizza (©Lorenzo Ceva Valla)

Israele e il post-trauma collettivo

Per raccontare il suo percorso, la Nizza ha raccontato che aveva 17 anni quando, nel 2000, scoppiò la Seconda Intifada: “All’epoca non sapevo quasi nulla di Israele”, ha detto, spiegando che faceva una normale vita da ebrea milanese, “ad un certo punto scossa da una perenne richiesta di spiegare ‘scusa, ma cosa state facendo in Israele, ai palestinesi?’”. In seguito iniziò a studiare l’argomento, e vi si appassionò a tal punto che decise di emigrare in Israele una volta finito il liceo.

“Arrivai il 30 luglio 2002. Il giorno successivo, proprio il 31 luglio, […] all’Università Ebraica di Gerusalemme, vi fu il primo e unico attentato all’interno dell’università, con 9 morti. Quello fu un po’ il mio ‘welcome’ nel paese”. Nei decenni successivi, cercò di raccontare la sfaccettata realtà israeliana come giornalista.

La sua impressione è sempre stata quella di un paese “estremamente interessante, vitale, pieno di spunti”, dove però viveva con la sensazione di “una società che viveva un post-trauma collettivo perenne, con una grande polarizzazione tra la voglia di vivere e la minaccia costante di morte”.

Ha spiegato che Israele vive ancora nello shock causato dal 7 ottobre, un attacco paragonabile solo alla guerra del ’48. Questo perché “Israele ha subito un colpo fatale alla sua deterrenza nello scacchiere mediorientale”, e per un paese non dimostrare deterrenza in quella regione “è quasi una condanna a morte”.

Uno dei traumi più pesanti che la società israeliana sta ancora affrontando è quello delle vittime di violenze sessuali, in quanto molte di esse stanno ancora elaborando ciò che gli è successo e impiegheranno del tempo per trovare la forza di parlare. Un’altra ferita nella società israeliana riguarda il non sentirsi compresi dal resto del mondo, al punto che la sinistra israeliana si sente completamente abbandonata da quelli che credeva essere suoi alleati.

Ma il trauma più grande, ha spiegato, “è dato dal crollo della fiducia nelle istituzioni. Perché ancora non è stata fornita una risposta alla domanda su come tutto ciò sia potuto accadere quel giorno”. Per ora la società cerca di restare unita, ma “anche questo fronte di unità si sta già sfaldando, perché poi rientra la necessità di capire”.

Profughi e superstiti

Parlando degli sfollati dalle zone di confine, ha spiegato che anche i numeri di quelli sfollati dal nord non si erano mai visti in questa quantità, nemmeno durante la guerra col Libano del 2006. Se per la maggior parte “non vogliono tornare a casa, fino a quando le minacce non saranno debellate”, alcuni invece tornano per non abbandonare le loro case “e si rischiano di prendere un missile anticarro in qualsiasi momento, cosa che è successa tre settimane fa al confine nord. Una signora non voleva lasciare casa, e purtroppo è morta con suo figlio”.

Ha voluto raccontare un episodio che l’ha riguardata personalmente, avvenuto circa 10 giorni prima al Kibbutz Be’eri quando era con un gruppo di giornalisti europei. La loro guida, “74 anni, sopravvissuta a quel giorno, mentre suo marito purtroppo è rimasto ucciso mentre difendeva il kibbutz, […] ci ha accompagnato nei vicoli del kibbutz, ripercorrendo le ore della mattanza”. Alla fine del giro, sapendo che la Nizza parla l’ebraico, le aveva chiesto com’era andata. Le aveva detto: “Sai, non è che io avrei tanta voglia di rivivere questi momenti, però il mondo non ci crede, e devo farlo. È un imperativo per me”.

Previsioni a breve termine

Per quanto riguarda l’evolversi della situazione nel breve periodo, la Nizza ha sostenuto che “molto a breve si arriverà ad un cessate il fuoco”, presumibilmente ai primi di marzo. “Tante cose ce lo fanno capire: che i soldati a Gaza sono rimandati a Gaza, già da inizio gennaio. E poi, vedete che la discussione su un deal è sempre più prevalente, anche nel dibattito mediatico”.

Ciò pone un dilemma per Israele, che “aveva posto due obiettivi fondamentali a questa campagna militare: eradicare Hamas, e far tornare gli ostaggi. Personalmente, ho sempre creduto che i due obiettivi non fossero compatibili con la realpolitik dettata dall’agenda internazionale”, poiché sradicare Hamas è un’operazione che richiederebbe mesi, o anni. E se le pressioni americane per raggiungere un accordo dovessero avere successo, buona parte degli ostaggi verrebbero liberati, ma l’obiettivo di debellare Hamas non sarà stato raggiunto.

All’interno della società israeliana, ci si chiede se riavere indietro gli ostaggi si possa considerare una vittoria: se anche sarà una vittoria morale, viene da chiedersi quanti terroristi saranno rilasciati per questo. Lo stesso Yahia Sinwar, leader di Hamas a Gaza, era tra i detenuti che nel 2011 vennero rilasciati per liberare il soldato israeliano Gilad Shalit. “Quello che non è ben chiaro”, ha spiegato la Nizza, “è che quella stessa operazione è parte di un’azione lungimirante diretta da Sinwar stesso nel carcere israeliano”. Sinwar era in carcere dal 1988, vi aveva preso dei titoli di studio, e dal carcere ha orchestrato “il concetto del rapimento per fare gli accordi”, al punto che suo fratello Mohammed aveva gestito l’operazione.

Un’altra cosa che secondo lei non può accadere, perlomeno a stretto giro, è “il ritorno della Soluzione dei due Stati, che da tempo ormai era già quantomeno appassita”. La fiducia nel dialogo è ai minimi storici nella società israeliana, anche perché il 7 ottobre è stato reso possibile anche da quei lavoratori palestinesi che, recandosi in Israele da Gaza, al rientro avevano passato informazioni a Hamas.

I rapporti con il mondo arabo

Secondo lei, in Medio Oriente “tutto quello che vedi pubblicamente non conta moltissimo. È quello che non vedi che invece conta sempre di più, quello di cui non si parla nei media”. Cita come esempio il fatto che il dialogo sottobanco con i sauditi non si è mai interrotto, e gli Accordi di Abramo reggono; nessuno dei paesi che li hanno firmati (Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan) ha richiamato l’ambasciatore da quando è scoppiata la guerra.

Il comune denominatore di queste alleanze, ha spiegato, “è dettato prevalentemente dalla volontà dei paesi sunniti di prendere le distanze dal radicalismo sciita”, rappresentato dall’Iran e dai suoi alleati Hezbollah e Houthi, “e da quello dei Fratelli Musulmani, di cui Hamas fa parte. Non a caso, i Fratelli Musulmani sono fuorilegge in tutti questi paesi”, ai quali fa comodo che Israele faccia il lavoro sporco combattendo Hamas al posto loro.

Previsioni a lungo termine

Guardando invece al lungo periodo, ha detto che bisogna innanzitutto “capire qual è il ruolo chiave dell’educazione”, poiché nelle scuole a Gaza si insegna ai bambini che Israele non esiste. “Qui rientra la necessità di sradicare due narrative critiche: la prima è la negazione della presenza ebraica nelle terre che sono state per secoli sotto dominazioni musulmane: mammelucchi, turchi, e poi britannici”.

Altro aspetto da monitorare “è la narrativa che riguarda Al-Aqsa: cioè l’idea che i sionisti minaccino la Moschea di Al-Aqsa, perché vorrebbero costruire il Terzo Tempio. Questa narrativa è assolutamente il comune denominatore che viene utilizzato per sobillare qualsiasi piazza musulmana contro Israele”. Una narrativa talmente forte che viene propagandata anche su TikTok dai ragazzi musulmani. Infatti, lei ha sostenuto l’idea che TikTok andrebbe bannato nei paesi occidentali, essendo di fatto uno strumento della propaganda cinese.

Altra cosa da fare è “smantellare l’UNRWA, o quantomeno farla rientrare nell’UNHCR”. Questo perché mentre l’UNHCR si occupa di ricollocare i rifugiati nei paesi dove vengono ospitati, l’UNRWA fa sì che i profughi palestinesi si tramandino lo status di rifugiato di genitore in figlio, senza mai nemmeno provare ad integrarli nei paesi in cui vivono. Il risultato è che se nel 1948 ad avere lo status di rifugiato palestinese erano circa 700.000, oggi sono quasi 6 milioni.

La Nizza sostiene anche che l’Occidente “deve ammettere di non capire a sufficienza la mentalità mediorientale estremista. Che è una mentalità che lavora a lungo termine, con pazienza, e ha un obiettivo molto specifico, ed è disposta ad aspettare molto tempo per ottenerlo, che è il fatto che Israele non ci deve essere in quelle aree”.

Secondo lei, i fatti del 7 ottobre dimostrano “che anche in Israele questo punto non era chiaro”. A provarlo, secondo lei, è “il fatto che Israele ha fallito totalmente nella lettura delle intenzioni di Hamas degli ultimi anni”. C’era cioè “l’illusione che fosse diventato un attore razionale, interessato al benessere della propria popolazione. Per questo l’aumento dei permessi di lavoro, i soldi che venivano dal Qatar, come se il welfare fosse il risultato a cui ambiva”.

Infine, ha spiegato che “sullo status quo non si può costruire un futuro stabile. E quindi, è assolutamente necessario trovare una soluzione per la questione palestinese”. Tuttavia, la soluzione dei due popoli e due Stati non è più considerata valida dalla maggioranza degli israeliani, “e allora forse bisogna anche pensare di ragionare a soluzioni alternative, come potrebbe essere lo stato binazionale, con la cittadinanza a tutti al Fiume Giordano al Mediterraneo, però mantenendo l’identità dello Stato ebraica”.

Lei ritiene questa soluzione poco praticabile, e ritiene molto più interessante “la soluzione federale: parlare di cantoni/emirati, […] che peraltro andrebbe anche a rispondere alle divisioni interne in Israele a cui abbiamo assistito nell’ultimo anno, tra religiosi e laici”.

(Foto: ©Lorenzo Ceva Valla))