Parashat Vayshlach. Dobbiamo avere il coraggio di essere diversi

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò

È uno degli episodi più enigmatici della Torà, ma anche uno dei più importanti, perché è stato il momento che ha dato il nome al popolo ebraico: Israele, colui che lotta con Dio e con gli uomini e vince” (Genesi 32:28).
Giacobbe, sentendo che suo fratello Esaù gli veniva incontro con un esercito di quattrocento uomini, fu atterrito. Era, dice la Torà, “molto spaventato e angosciato” (Genesi 32:7). Fece tre forme di preparazione: pacificazione, preghiera e guerra (Rashi al verso 9). Mandò a Esaù un enorme dono di bestiame e greggi, sperando così di placarlo. Pregò Dio: “Liberami, ti prego, dalla mano di mio fratello” (verso 11). E fece i preparativi per la guerra, dividendo la sua casa in due accampamenti perché almeno uno dei due sopravvivesse. Eppure nonostante questo rimase con l’ansia. Di notte lottò con uno sconosciuto fino all’alba. Chi fosse lo straniero non è chiaro. Il testo lo chiama uomo. Osea (12:5) lo chiamò un angelo. I Saggi dicevano che era l’angelo custode di Esaù. Lo stesso Giacobbe sembra sicuro di aver incontrato Dio stesso. Egli chiamò Peniel il luogo dove ci fu la lotta, dicendo: “Ho visto Dio faccia a faccia e la mia vita è stata risparmiata” (Genesi 32:30).

Ci sono molte interpretazioni. Una, tuttavia, è particolarmente affascinante sia in termini di stile che di sostanza. Proviene dal nipote di Rashi, Rabbi Shmuel ben Meir (Francia, 1085-1158), Rashbam aveva un approccio sorprendentemente originale al commento biblico. Sentiva che i Saggi, intenti com’erano a leggere il testo per le sue ramificazioni halachiche, spesso non riuscivano a penetrare ciò che chiamava omek peshuto shel mikra, il semplice senso del testo in tutta la sua profondità.

Il Rashbam pensava che suo nonno si appoggiasse troppo pesantemente al midrash, piuttosto che a una “semplice” lettura del testo. Ci ha fatto sapere che ha spesso discusso la questione con lui, il quale ha ammesso che se avesse avuto il tempo avrebbe scritto ulteriori commenti alla Torà, alla luce di nuove intuizioni sul senso comune che gli venivano in mente “ogni giorno”. Questa è un’affascinante visione della mente di Rashi, il più grande e famoso commentatore dell’intera storia degli studi rabbinici.

Tutto questo è un preludio alla straordinaria lettura di Rashbam a proposito dell’incontro di wrestling notturno che Yacov ebbe. Lo prende come un esempio di ciò che Robert Alter (critico letterario statunitense 1983-…) ha definito una scena-tipo, cioè un episodio stilizzato che accade più di una volta nel Tanach. Un classico esempio è un giovane che incontra la sua futura moglie presso un pozzo, una scena rappresentata con delle variazioni tre volte nella Torà: nel caso del servo di Abramo e Rebecca, Giacobbe e Rachel, Mosè e Tzippora. Ci sono delle differenze tra i loro incontri, ma somiglianze sufficienti per farci capire che abbiamo a che fare con una convenzione. Un altro esempio, che ricorre molte volte nel Tanach, è la nascita di un eroe da una donna sterile.

Rashbam vede questo come l’indizio per comprendere il combattimento notturno di Yacov. Lo mette in relazione con altri episodi del Tanach, due in particolare: la storia di Giona, e l’oscuro episodio della vita di Mosè quando, sulla via del ritorno in Egitto, il testo dice: Mentre, durante il viaggio, (Mosè) si trovava in una locanda, (un angelo del) l’Eterno gli venne incontro e (sotto le sembianze di un serpente) cercò di farlo morire. (Esodo 4:24)
“Tzippora ha quindi salvato la vita di Mosè facendo il brit al loro figlio” (Esodo 4:25–26)

È la storia di Giona che fornisce la chiave per comprendere gli altri episodi. Egli cercò di sfuggire alla sua missione, quella di andare a Ninive per avvertire il popolo che la città sarebbe stata distrutta se non si fossero pentiti. Giona fuggì su una barca verso Tarshish, ma Dio scatenò una tempesta che minacciò di affondare la nave. Il profeta fu poi gettato in mare e inghiottito da un pesce gigante che in seguito lo rigettò vivo dalla sua bocca. Giona si rese così conto che la fuga dalla sua missione era impossibile.

Lo stesso, dice Rashbam, vale per Mosè che, presso il roveto ardente, espresse ripetutamente la sua riluttanza ad intraprendere il compito che Dio gli aveva assegnato. Evidentemente, Mosè stava ancora tergiversando anche dopo aver iniziato il viaggio, motivo per cui Dio era adirato con lui.

Così è stato con Yacov. Secondo Rashbam, nonostante le assicurazioni di Dio, aveva ancora paura di incontrare Esaù. Il suo coraggio gli venne meno e stava cercando di scappare. Dio mandò un angelo per impedirgli di farlo. Così fece Geremia quando disse: “Non posso parlare: sono un bambino” (Geremia 1:6). Questa non è paura fisica. È la paura che nasce da un sentimento di inadeguatezza personale. “Chi sono io per guidare il popolo ebraico?” Chiese Mosè. “Chi sono io per trasmettere la parola di Dio?” chiesero i profeti. “Chi sono io per stare davanti a mio fratello Esaù, sapendo che io manterrò il patto e lui no?” chiese Giacobbe.

A volte anche i più grandi hanno poca fiducia in se stessi, perché sanno quanto sia immensa la responsabilità e quanto piccoli si sentano in relazione ad essa. Coraggio non significa non avere paura. Significa avere paura, ma superarla. Se questo è vero per il coraggio fisico, non è meno vero per il coraggio morale e spirituale.

Le osservazioni di Marianne Williamson (scrittrice e politica statunitense 1952 – …)sull’argomento sono diventate giustamente famose. Lei scrisse:

…La nostra paura più profonda non è quella di essere inadeguati. La nostra paura più profonda è quella di essere potenti oltre misura. È la nostra luce, non la nostra oscurità, che più ci spaventa. Ci chiediamo, chi sono io per essere brillante, stupendo, talentuoso, favoloso? In realtà, chi sei tu per non esserlo? Sei un figlio di Dio. Il tuo giocare in piccolo non serve al mondo. Non c’è nulla di illuminato nel restringersi in modo che le altre persone non si sentano insicure intorno a te. Siamo tutti destinati a brillare, come fanno i bambini. Siamo nati per manifestare la gloria di Dio che è in noi. Non è solo in alcuni di noi, è in tutti. E mentre lasciamo risplendere la nostra luce, inconsciamente diamo ad altre persone il permesso di fare lo stesso.

Shakespeare lo ha detto meglio: “Non abbiate paura della grandezza: alcuni nascono grandi, alcuni raggiungono la grandezza, e ad alcuni la grandezza viene imposta”.

A volte sento che, consciamente o inconsciamente, alcuni fuggono dal giudaismo proprio per questo motivo. Chi siamo noi per essere testimoni di Dio nel mondo, luce per le nazioni, modello per gli altri? Se persino giganti spirituali come Giacobbe, Mosè e Giona cercarono di fuggire, quanto più tu ed io potremmo sentire il bisogno di farlo? Questa paura dell’indegnità è quella che sicuramente la maggior parte di noi ha avuto o avrà prima o poi. Il motivo per cui è sbagliato non è perché non è vera, ma perché è irrilevante.

Naturalmente ci sentiamo inadeguati per un grande compito prima di intraprenderlo. È avere il coraggio di provarci che ci rende grandi. I leader crescono guidando. Gli scrittori crescono scrivendo. Gli insegnanti crescono insegnando. È solo superando il nostro senso di inadeguatezza che ci buttiamo nel compito e ci troviamo sollevati e ingranditi così facendo.

Nel titolo di un noto libro, dobbiamo “sentire la paura e farlo comunque”. Non abbiate paura della grandezza: per questo Dio ha lottato con Giacobbe, Mosè e Giona e non li ha lasciati scappare. Potremmo non nascere grandi, ma nascendo (o convertendoci per diventare) ebrei, abbiamo la grandezza imposta su di noi. E come ha giustamente affermato Marianne Williamson, liberandoci dalla paura, aiutiamo a liberare gli altri. Questo è ciò che noi ebrei siamo destinati a fare: avere il coraggio di essere diversi, sfidare gli idoli dell’epoca, essere fedeli alla nostra fede mentre cerchiamo di essere una benedizione per gli altri indipendentemente dalla loro fede.

Di rav Jonathan Sacks zl