di Claudio Vercelli
[Storia e controstorie] No, per cortesia, le etichette proprio no! Men che meno quelle gratuite, che si appiccicano agli altri con troppa facilità. Così come gli altri (non importa chi essi siano) potrebbero, prima o poi, appiccicarle a noi. Quand’anche fingendo, per parte nostra, di semplificarci la vita nel mentre, invece, ce la rendono ben più complicata, almeno nei tempi a venire. Poiché, se la tentazione di agevolare l’interpretazione delle cose dell’esistenza è comprensibile, non altrettanto può dirsi della sua banalizzazione. Che sta alla lettura del presente così come uno spettacolo di burattini sta alla vita concreta degli esseri umani. Non siamo esseri governati da fili, più o meno visibili. I cliché sono invece le false interpretazioni che ci tengono avvinti alle catene. Troppo spesso, infatti, si è scambiata l’esigenza di proteggersi – come persone, famiglie, gruppo, minoranza, ma anche, e soprattutto, in quanto parte della società – con quella di rinchiudersi in un particolarismo, fatto soprattutto di miti, più che di riti, di credenze più che di consapevolezze.
Questo atteggiamento, per capirci, non è uno specifico e peculiare difetto di parte ebraica. Semmai segnala il difficile, nonché irrisolto, rapporto – a tratti quasi impossibile da dipanare – almeno in alcuni suoi aspetti, tra la stragrande maggioranza peninsulare (quella cattolica, nel caso italiano) e le minoranze nazionali. Le quali, va da sé, tutelano la propria continuità rispetto a qualsiasi tentativo di omologazione.
Ma ciò facendo, entrano in gioco importanti distinguo. Più volte, in questa rubrica e nelle pagine del giornale che avete tra le mani, ci siamo pronunciati contro quella patologia della coscienza di sé che si chiama identitarismo. Per capirci, è tale la condizione per cui ci si pensa non solo come immutabili, impermeabili alla storia, al trascorrere del tempo, ma ci si contrappone al resto della società con un discorso secessionista, separatista, integralista. Come esiste una malattia dello Stato nazionale nell’età della sua crisi dinanzi ai processi di globalizzazione, ed è il sovranismo, così si dà una patologia del carattere individuale, e del pensiero di gruppo, che è l’identitarismo.
Cerchiamo di capirci. L’identità, a partire dalla psicologia, è definita come “una delle caratteristiche formali dell’Io, che avverte la propria uguaglianza e continuità nel tempo come centro del campo della propria coscienza. La percezione di avere un’identità personale e la consapevolezza che gli altri la riconoscano è condizione necessaria della sanità psichica” (Enciclopedia Treccani Online). Si tratta quindi di un architrave fondamentale del modo in cui le persone intendono se stesse. Pertanto, dei criteri medesimi con i quali si relazionano vicendevolmente. Al pari del riscontro che esiste uno Stato solo se le sue istituzioni collettive – oltre a fondarsi su legittimità (quando ciò che fanno risponda al principio di giustizia) e legalità (corrispondendo nel loro operato alle norme che lo Stato si è dato ed essendo quindi consone al rispetto delle sue stesse leggi) – esercitano i loro poteri, in nome della collettività di riferimento, su una porzione di spazio che è definito “sovrano” in virtù proprio della specifica cogenza di quei poteri in quell’ambito fisico.
L’identitarismo è invece la perversione del presupposto di identità, in quanto lo trasforma in un mero costrutto ideologico. E ciò avviene quando l’identità medesima perde quel tratto non solo soggettivo, personale, quindi fluido, destinato a modificarsi nel tempo – per necessario adattamento ai mutamenti dell’ambiente circostante – ma anche la sua natura di elemento di comunicazione. Fatto che si verifica tanto più nel momento in cui gli individui, tra di loro consorziati, si arroccano nella rivendicazione di uno spazio di gruppo completamente chiuso rispetto a qualsiasi influenza esterna: una sorta di recinto mentale, prima ancora che altro, ossia un confine d’acciaio che finge di potere prescindere da qualsiasi confronto con ciò che gli sta intorno. I fondamentalismi di ogni genere e risma, quindi non solo quelli religiosi, storicamente soddisfano un tale criterio di condotta. Ma per estensione sono anche altri gli atteggiamenti collettivi che ne rimangono interessati. Il tratto comune a tutti è il riferimento ad una qualche forma di paura da contaminazione: se mi confronto e mi “confondo” con ciò che è diverso da me, rischio di corrompermi. Ragion per cui mi rinserro in me stesso, nel mio gruppo di omologhi e rifiuto tutto quanto possa in qualche misura rimanere estraneo da ciò.
Ora, poste queste premesse, non viene da pensare che un terreno di slittamento degli identitarismi sia esattamente quello che si va costituendo, in una sorta di inconfessabile reciprocità nelle relazioni tra parti altrimenti contrapposte, tra le ossessioni di ciò che è definito come “politicamente corretto” e quel suo paradossale reciproco inverso che è invece la paranoia da “grand remplacement”, ovvero la teoria cospirazionista per la quale le popolazioni europee sarebbero in via di sostituzione da parte di quelle africane ed asiatiche? Se le due formulazioni – di primo acchito – sembrano essere antitetiche, entrambe tuttavia traggono alimento dalla fissazione per qualcosa – l’identità come ossessione, per l’appunto – che è presentata come minacciata poiché non riconosciuta. Beninteso, l’identità di gruppo, non quella di cittadinanza. Posto che quest’ultima è ben altra cosa. L’identità, quindi, come tratto profondo, ascritto, un calco ineludibile e non trasformabile; non – invece – la personalità come prodotto storico.
I fondamentalismi, d’altro canto, da sempre cancellano la storia come racconto della trasformazione degli individui, delle comunità e quindi delle società. Nell’età della globalizzazione, l’angoscia da omologazione, così come il timore per un tempo a venire del quale non si colgono i lineamenti, possono produrre molti mostri. Soprattutto quelli che abitano i pensieri di chi non riesce a pensarsi.