Kesher: Il ruolo del rabbino oggi in Italia

Ebraismo

di Roberto Zadik (video di Orazio Di Gregorio)

Una serata partecipata, intensa, alla presenza di circa 350 persone, quella del 25 novembre nell’Aula Magna Aron Benatoff della scuola, organizzata da Kesher, in cui Fiona Diwan, direttrice dei media della Comunità Ebraica di Milano ha intervistato il Rabbino Capo Rav Alfonso Arbib su alcune importanti questioni. Ha introdotto e concluso Rav Roberto Della Rocca, direttore dell’Area Cultura e Formazione dell’Ucei e di Kesher, che si è espresso su vari argomenti, non ultimo in un ricordo appassionato di Rav Toaff, suo Maestro al Collegio rabbinico. Tante le tematiche sul tavolo, le osservazioni e le domande dal pubblico. Dal ruolo del Rabbino oggi in Italia alla situazione comunitaria immersa in una modernità globale, fino alla questione dei ghiurim, le conversioni, e al tema dell’accoglienza, dell’inclusione e del coinvolgimento dei “lontani”.

Fiona Diwan ha esordito con un excursus riassuntivo dei tanti modi di esercitare la professione di Rav. «Rabbino di comunità, pastore di anime, rabbino intellettuale, rabbino accademico e studioso, rabbino ambasciatore e che ricopre ruoli di diplomazia religiosa, rabbino dayan e giudice. Quante funzioni ricopre il rabbino?», ha chiesto, riassumendone anche i vari ruoli ricoperti nel passato. Un tempo infatti, si sommavano a questi ruoli quelli scaturiti dagli studi paralleli e secolari: si affrontava un complesso e lungo iter di studi rabbinici ma si studiava parallelamente anche da medico o avvocato (questi i mestieri più praticati), affiancando gli studi universitari secolari a quelli del Collegio rabbinico. Nel passato inoltre, il rabbino doveva saper fare tutto: essere shochet e saper fare la macellazione rituale; doveva saper fare il moel (il circoncisore), il sofer (lo scriba nelle varie grafie e calligrafie ebraiche), e anche il chazan (il cantore), sapere come rimettere a posto le mezuzot, e possedere automaticamente anche una laurea o titolo di studio secolare. Un livello di formazione altissimo, di elite, che non esiste più. Insomma, il pacchetto del lavoro del rabbino doveva essere estesissimo.

La laurea serviva per venderti sull’esterno, e saper garantire immagine, tono e qualità alla Comunità che il rabbino doveva rappresentare presso le istituzioni esterne. Ma come si è visto, le funzioni erano tantissime, anche verso il mondo ebraico interno, dal Bet Din alle sepolture, dalla carne kasher all’officiatura secondo i vari riti, eccetera.

Oggi, per sua fortuna, il rabbino factotum non esiste più.

 

La figura del Rabbino: che cosa è cambiato

Oggi, spesso erroneamente, il rabbino è percepito come una specie di “prete”, l’esperto di ebraismo, un sapiente, o ancora è percepito come diplomatico erudito, uomo della diplomazia religiosa che deve aver a che fare con le diverse confessioni religiose che popolano il nuovo mosaico socio-religioso italiano.

Ma allora come si è evoluta la professione del Rav? Quali i suoi compiti e le sue funzioni nel tempo? Dopo un breve excursus introduttivo di Rav Della Rocca, Rav Alfonso Arbib ha ricordato come il rabbino sia sempre stato una guida di comunità ma che dopo il XIX secolo e con l’Emancipazione sia cominciato per l’ebraismo europeo un periodo di decadenza. Da quel momento in avanti, il Rabbino spesso ha dovuto assumersi il ruolo dell’ebreo doc. Arbib ha ricordato che il rabbinato e i suoi compiti sono stati uno dei temi centrali del recente incontro a Roma sugli Stati Generali e ha sottolineato che uno dei doveri principali del Rabbino è saper ascoltare le istanze della propria Comunità. Circa i temi dell’accoglienza e inclusione, si è quindi sottolineato come il rapporto tra i rabbini e la parte più secolare delle comunità sia diventato in questi anni difficile, a volte un dialogo fra sordi. I primi diventati col tempo più rigorosi – o più preparati – mentre gli altri avviati verso un percorso opposto. Esiste una risposta a questo gap? Se da una parte chi vuole essere leader spirituale deve sapere ascoltare, sintonizzarsi sulle varie frequenze che si trovano nelle comunità, dall’altra questo dovrebbe avvenire senza farsi condizionare: ovvero mantenere una linea di condotta, senza adattarsi al contesto o alla varie mode del momento.

Come muoversi su questo letto di Procuste?

Studio, osservanza, Ghiurim

Non a caso infatti, il secondo argomento della serata è stato il tema delle conversioni e dei ghiurim che sono stati affrontati da Rav Arbib suscitando successivamente domande e interventi dal pubblico. Citando più volte le figure italiane di Rav Laras e di Rav Elio Toaff, il Rabbino Capo ha evidenziato la centralità dell’osservanza e dell’impegno verso la shmirat Mitzvot (rispetto dei Precetti) da parte di chi intende convertirsi. Ricostruendo la storia del XX secolo del modus operandi del Rabbinato italiano, si è affrontata la questione delle conversioni, dei matrimoni misti e del ghiur katan (conversione dei minori, figli di coppie miste o di bambini adottati): il Rav ha ricordato che è stato con l’Illuminismo, con l’apertura dei ghetti e l’emancipazione a fine Ottocento che la questione si è cominciata a porre in modo serio, ma che dal 1997 l’Assemblea Rabbinica ha abolito questa pratica, fra molteplici polemiche. Il ghiur katan è un’eccezione alla regola, va valutato caso per caso, non ci può essere una regola generale, è stato detto. (Premessa normativa: il ghiur è previsto dal Shulchan Aruch e anche quella dei minori. Il quale è tuttavia un qualcosa di estremamente delicato. Tu puoi convertire una persona quando è totalmente cosciente di quello che fa e nel caso di un bambino non è propriamente così. Il ghiur katan vuol dire sotto i 12 anni per le ragazze, e 13 anni per i maschi. Katan è quando non è bar o bat mitzvà, cioè la “Maggiorità religiosa”).

Ma qual è allora il vulnus di tutta la questione?

Il fatto che alcuni lamentino un radicale cambio di atteggiamento rispetto al passato, quello di un ebraismo italiano d’antan percepito, a torto o a ragione, come più possibilista, e dimenticando forse, che anche all’epoca il tema del ghiur katan nella sua “via italiana” rappresentava una eccezione alla regola.

Ma se esiste un’eccezione alla regola (e se fu considerata halachicamente percorribile), perché rispetto a una posizione, diciamo possibilista o aperturista, oggi le cose sono cambiate, perlomeno nella percezione della gente? Molti si chiedono: è lecito far valere l’ermeneutica e l’interpretazione, – così fondanti per l’ebraismo -, anche per il tema del ghiur?

Sta al Bet Din decidere di aprire, se aprire, quando aprire?

Certamente, sta ai Bate’ Din di riferimento e alle sensibilità dei suoi membri valutare il grado di convinzione di chi è in percorso di ghiur. In merito al ghiur degli adulti – dopo i 18 anni -, Arbib ha spiegato che dovrebbe essere intrapreso con estrema serietà e sincerità, nella piena accettazione dell’halachà e delle regole da parte di chi si converte, e affrontando con senso di responsabilità e impegno questo percorso. Non esiste un ghiur laico, ha tenuto a sottolineare Rav Arbib. Esiste un solo ebraismo, esiste una sola Torà. Non esistono gli ebraismi, ma esiste semmai un proprio individuale e peculiare modo di vivere l’ebraismo. Ciascuno è libero di esperirlo a modo suo, siamo tutti diversi anche nell’esperienza religiosa e spirituale che facciamo ogni giorno. Resta il fatto, ha sottolineato il Rav, che fondamentali sono lo studio, le mitzvot, la frequentazione del tempio e della Comunità di riferimento. Per questo motivo, ad esempio, le richieste di conversioni di persone che vivono isolate o in luoghi dove non ci sono ebrei o realtà comunitarie, sono difficili da accogliere, proprio perché manca una Comunità, e l’ebraismo è anche un’esperienza collettiva da condividere con i propri simili.

Il rapporto fra il Rabbinato italiano e quello israeliano e europeo

In tema di storia dell’ebraismo italiano, entrambi i due rabbanim presenti hanno sottolineato la grandezza dell’ebraismo italiano e il fatto che «abbiamo maestri e saggi come Ramchal – Moshe Haim Luzzatto – e Ovadia Sforno che vengono studiati nelle yeshivot di tutto il mondo; l’ebraismo italiano ha avuto rabbini molto seri e rigorosi, dei veri giganti del pensiero».

Altro tema dell’incontro, prima di una lunga lista di domande e riflessioni dei presenti, è stato il rapporto fra Italia e realtà rabbinica europea e israeliana. Non siamo delle monadi, non possiamo vivere un ebraismo italiano ripiegato su se stesso, è stato detto. In tempi globali e mondi globali «tutto è cambiato e oggi vige una maggiore internazionalizzazione dei rapporti», ha ricordato il Rav citando la Conferenza dei Rabbini europei del 1956 e l’impegno costante di Rav Laras nell’instaurare e  mantenere le relazioni con altre realtà internazionali. A proposito di conversioni, Rav Arbib ha ricordato che per essere valide in ogni luogo, queste debbano essere accettate e riconosciute anche in Israele e dall’ebraismo ortodosso internazionale, non solo nel nostro Paese, e seguire criteri condivisi.

Accoglienza, partecipazione

Tornando alla partecipazione comunitaria e al problema della flessione demografica, il Rav si è soffermato su quanto sia importante l’unità nella diversità, il coinvolgimento e la partecipazione. Elogiando l’impegno di Kesher che in questi anni ha puntato a avvicinare gli ebrei lontani e persone molto diverse fra loro, Rav Arbib ha evidenziato che «nonostante si siano fatti dei passi avanti in questo senso, ci sono persone refrattarie alle proposte comunitarie e alle quali sembra dia fastidio la sola idea di essere coinvolti».

Infine, Rav Della Rocca ha tirato le fila della serata, mettendo in luce «la vitalità straordinaria di questa Comunità milanese e la grande offerta in termini di eventi e di proposte culturali ebraiche che ci caratterizza», una notevole conquista degli ultimi anni. Sia Rav Della Rocca sia Rav Arbib hanno tenuto a sottolineare quanto sia vivace l’offerta di studio e approfondimento, il fermento culturale e la ricchezza di iniziative. Sull’idea di una tradizione laica e di un ebraismo italiano “aperturista”, Rav Della Rocca ha ricordato infine il suo maestro Rav Toaff  «una figura che rischia di essere strumentalizzata, un personaggio di grande carisma e rigore halachico che, contrariamente a quanto si crede, era capace di prendere decisioni estremamente impopolari come ad esempio abolire la musica d’organo dalle preghiere sinagogali a Roma e far rimuovere lo strumento, con grande scorno di chi vi era abituato da sempre». Successivamente varie e interessanti anche diverse osservazioni dal pubblico per una serata di confronto e dialogo.