Eutanasia e pensiero ebraico

Opinioni

La dolorosa vicenda di Eluana Englaro, in stato vegetativo da 16 anni, con la sentenza che consente oggi di interrompere l’alimentazione artificiale che la tiene in vita, riapre in Italia la discussione sull’eutanasia, anche se in questo caso, dice il padre della giovane donna: “si tratta di lasciare che la natura riprenda il suo corso”.

Un plauso ai giudici della Cassazione e della Corte di Appello di Milano che hanno accolto la richiesta del genitori di Eluana Englaro è venuto da Maurizio Mori, presidente della Consulta di Bioetica, secondo il quale la sentenza di Milano “segna una crescita civile del Paese per il rispetto dell’autodeterminazione e della libertà delle persone”.

Ma qual è il pensiero ebraico a riguardo? Lo spiega rav Riccardo Di Segni, medico e rabbino capo della Comunità ebraica di Roma.

Chi si trovi davanti a un malato estremamente sofferente, sia per condizione professionale che per qualsiasi altro motivo, può essere indotto a reagire all’intenso stimolo emotivo ed umanitario con risposte di tipo differente: dal rifiuto delle responsabilità ad un forte impegno personale che, a sua volta, può realizzarsi in modi opposti, dal desiderio di affrettare la morte del malato per porre fine alle sue sofferenze (eutanasia), al tentativo esasperato di curarlo ad ogni costo (accanimento terapeutico).
Non si tratta, evidentemente, di decisioni banali; non solo perché la cosa non riguarda unicamente chi agisce, come l’operatore sanitario, o l’amico o il parente, ma pure un’altra persona, quella del sofferente, che spesso non è neppure cosciente; ma anche perchè i termini del problema sono strettamente correlati a quello più generale del diritto di decidere e intervenire sulla vita di altri. In una società civile questo diritto non può restare indeterminato, lasciando le decisioni ai singoli, ma va garantito e regolato con precisione, essendo una delle basi essenziali della convivenza. In una cultura che ha radici religiose all’esigenza della stabilità sociale si unisce il peso di una tradizione di fede e di etica che sostiene a monte dei principi generali sul valore della vita umana.
Nella tradizione ebraica come è noto le scelte della halakhà non sono pure astrazioni religiose, ma corrispondono anche alle esigenze della stabilità sociale. In merito al problema che stiamo discutendo esistono degli orientamenti generali precisi da molti secoli; va tuttavia aggiunto che i progressi recenti della medicina hanno posto una serie molto complicata di problemi particolari, sui quali la discussione è viva e le risposte spesso discordanti.

Non accelerare la morte

I principi essenziali che regolano la materia sono essenzialmente due. In primo luogo è proibito ogni atto che possa accellerare la morte di un agonizzante: gli esempi citati nei testi tradizionali si riferiscono anche a mezzi indiretti di tipo magico, o a semplici azioni come movimenti del corpo, che in qualche modo turbano un equilibrio precario. Il concetto che ispira queste regole e che a nessuno è concesso il diritto di procurare la morte anche se si tratta di un processo irreversibile e imminente, anche se per i medici non c’è più alcuna speranza e anche se è il malato stesso a richiederlo. Chi procura direttamente la morte ad un agonizzante è in pratica come se avesse compiuto un omicidio. Ovviamente la regola riguarda in primo luogo il medico, al quale è anche proibito suggerire al malato i modi per risolvere da solo il problema. Per dirla con le parole del Rav Jakobovits, nel conflitto di interessi tra la tutela della santità della vita e l’esigenza legittima di liberare dal dolore, quest’ultima non può avere la prevalenza sulla prima. “Se si diminuisce il valore della vita di un uomo perchè questi sta per morire, la vita dell’uomo in generale perde il suo valore assoluto e diventa relativa” (Ha-Refuà weha-Jahadùt, p. 152). In questo ambito rientra anche la propria morte, cioè il suicidio, anche se sono in molti a considerare con molta minore severità il suicidio messo in atto per risparmiarsi delle sofferenze (anche perchè un uomo che soffre è sempre meno responsabile delle sue azioni: en adàm nitpàs ‘al tza’arò).


Rimuovere gli impedimenti artificiali alla morte

Un secondo principio, che limita l’ambito del primo, stabilendo una sottile ma importante differenza, è che è permesso rimuovere le cause che indirettamente impediscono la morte di un agonizzante; l’esempio classico è quello di un suono esterno ripetuto, come i colpi di qualcuno che spacca la legna, che, se impediscono il trapasso, possono essere fermati. Parallelamente non vanno messe in atto le misure che servono solo a prolungare le sofferenze del malato (anche perchè nell’ebraismo la medicina è permessa nella misura in cui cura e guarisce): gli esempi classici sono il far rumore o piangere in presenza del malato o mettergli del sale sulla lingua. Da questi esempi del medioevale Sefer Chasidim alle sofisticate attrezzature della medicina moderna passa molto tempo, e così la casistica si è notevolmente articolata recentemente, cercando di verificare ogni volta la complicata differenza che può esistere tra la rimozione di ciò che impedisce e l’applicazione di ciò che affretta.

Un esempio è nel caso di un respiratore automatico applicato a un moribondo: l’orientamento prevalente è che “se è chiaro che il respiro e il battito cardiaco sono fermi è permesso staccare l’apparecchio ed è proibito riapplicarlo”; un suggerimento pratico è quello di regolare l’apparecchio con un interruttore che lo ferma periodicamente, e di verificare la situazione durante le fermate: se il malato è vivo, si riavvia l’apparecchio, altrimenti lo si stacca definitivamente (Hilkhòt Rofeìm Rufuà, p. 203-4). Analogamente un paziente con attività cerebrale irreversibilmente danneggiata, non deve essere sottoposto a cure (come ossigeno o infusioni) che hanno solo il fine di creare una situazione artificiosa di rinvio del decesso; se le cure sono in corso, non vanno però interrotte; e infine se la bombola si vuota o l’infusione finisce, non si è tenuti a metterne di nuove.

Un altro problema è quello dell’impiego di farmaci antidolorifici, che sono permessi anche se possono affrettare la morte, purché non siano dati proprio per questo scopo. Un ultimo esempio, proprio di un mondo religioso che crede alla forza della preghiera, è il problema se sia permesso pregare per la morte di un paziente, affinché questi possa finire di soffrire; la questione è controversa, e in recenti orientamenti si proibisce comunque ai parenti questo tipo di preghiera, che invece è consentita al malato stesso, mentre a terzi può essere consentita solo a particolari condizioni, come la genericità dell’invocazione e la verifica inutilità dei mezzi messi a disposizione dalla medicina.

Riccardo Di Segni

già pubblicato sul Bollettino della Comunità