Ebreo in preghiera in un dipinto di Marc Chagall

La Tefillà (preghiera): il potere della parola connessa all’anima

di Daniele Cohenca
L’uomo ha da sempre avuto il bisogno di esprimersi; con la capacità di espressione è quindi nata la possibilità di relazione. In poco tempo, l’uomo dopo aver sperimentato la relazione con i suoi simili, ha sentito il bisogno di una connessione più elevata: nasce la Preghiera.
Tuttavia, per secoli le parole della preghiera non sono state codificate: Maimonide scrive che “le persone pregavano quando volevano, quanto volevano ed esprimevano con parole loro tre momenti particolari di relazione con Dio: la lode, la richiesta, il ringraziamento”.

Ci volle molto tempo (siamo già quasi al termine dell’esilio Babilonese) prima che i Maestri (in questo caso Ezrà e Nechemyà) codificassero queste espressioni in parole di lingua ebraica, uniformando le preghiere di tutti gli Ebrei. Questo si era reso necessario per il rischio che il Popolo perdesse la capacità individuale di relazione con il Signore, avendo nel tempo ridotto notevolmente le proprie qualità morali ed etiche; se un tempo chiunque era in grado di poter “parlare con Dio”, questo non poteva più avvenire in maniera autonoma.
La Torà ci insegna quanto è importante fare attenzione a ciò che mettiamo in bocca, lo è ancora di più ciò che da essa ne esce.
Dire le cose ad alta voce non influenza solo chi ci sta attorno; gridarle, ci permette di raggiungere orecchie più distanti ma ciò si riflette in modo inaspettato anche in noi stessi.

La parola, segnale metafisico

La parola, è ciò che ci consente di comunicare ad altri i nostri pensieri, le nostre emozioni; è un segnale metafisico che viene convertito dalla bocca in un linguaggio comprensibile a chi ci sta attorno. Più profonda è la sorgente delle nostre emozioni, maggiore sarà la difficoltà che incontriamo quando dobbiamo convertire il segnale per poterlo trasmettere. Ciò vale anche al contrario: ogni parola che diciamo, esprime una parte di noi stessi e rivela quindi un canale diretto con la nostra anima; maggiore è il valore di ciò che diciamo, più profonda è la sorgente da cui proviene il messaggio.
Parole di Torà, Preghiere, moralità comunicano attraverso la bocca ciò che abbiamo nella nostra anima e ciò che vogliamo sia rivelato.
D’altro canto, parole vuote, prive di spessore, di moralità o addirittura negative o dannose, emergono dal lato oscuro della nostra anima, quello che si oppone alla Santità della nostra vita.
Il Talmud insegna: “disse Rabbì Yossè in nome di Rabbì Chaninà: la preghiera fu stabilita dai Patriarchi (Abramo, Isacco e Giacobbe); Rabbì Yehoshua ben Levì dice: la Preghiera fu stabilita in sostituzione dei sacrifici (TB Berachòt 26b). Questo passo comporta una domanda logica: per quale motivo è stata istituita la preghiera? Il solo fatto di esprimere parole di preghiera, come detto, comporta già l’avvio di una relazione verso il Signore, attraverso la quale abbiamo anche (come visto nelle puntate precedenti) la possibilità di migliorare noi stessi, di aprire il nostro cuore e la nostra anima; ma che cosa ha questo a vedere con il passo del Talmud appena citato?
Quando i Patriarchi iniziarono a servire il Signore, non esisteva ancora il Popolo Ebraico e nemmeno la Torà; il loro scopo era dunque individuale, erano votati a migliorare sé stessi, ad incrementare la loro personale relazione con Dio, in un contesto molto poco sociale.
I sacrifici, invece, furono stabiliti dopo il dono della Torà ed includevano nel loro processo numerosi funzioni “sociali” possibili solo con la nascita del Popolo Ebraico.
Le due posizioni del Talmud, rappresentano due modalità di approccio alla preghiera, che – dopo la Torà – si sono fuse nel concetto di Tefillà: pregare per migliorare sé stessi e pregare a beneficio di tutta la Società.

La Amidà

All’interno di questa fusione deve però trovare posto ciò che abbiamo detto prima relativamente alle espressioni verbali che compongono la nostra preghiera.
I Maestri hanno costruito la “Amidà”, la parte culminante delle Tefillòt quotidiane, le 18 (19) benedizioni di tutti i giorni feriali, seguendo ciò Maimonide ci ha detto essere sempre stata l’inclinazione dell’essere umano nel suo rapporto con Dio: lodare, richiedere e ringraziare. Troviamo così all’interno della Amidà proprio queste tre fasi che non possono essere scisse una dall’altra: abbiamo oggi tre Benedizioni di Lodi, tredici di richiesta dei nostri bisogni individuali e collettivi e tre Benedizioni di ringraziamento.
Le parole che noi utilizziamo per esprimerci in questi sensi sono già codificate e dunque non richiedono particolari sforzi da parte nostra. Ciò che invece richiede la nostra dedizione è la modalità che utilizziamo per dialogare con il Signore ogni giorno. Dato che, come visto in apertura di questa puntata, le parole che noi diciamo sono la codificazione di ciò che proviamo, l’efficacia della Tefillà (se così si può dire) dipende oggi dal “come” noi diciamo queste parole; possiamo semplicemente ripeterle come un disco, ogni giorno per tre volte al giorno senza che queste abbiano alcun collegamento col nostro essere profondo (per il fatto che sono già codificate, non abbiamo bisogno di cercare le parole giuste per esprimerci). Questo è ciò che dice il Talmud: “colui che fa una preghiera automatica, non fa una preghiera sincera; e che cosa si intende per preghiera automatica? La preghiera che è vista come un peso” (TB Berachot 29b).


Perché la nostra preghiera sia sincera, è dunque necessario connettere le parole che noi diciamo al nostro cuore ed alla nostra anima, quindi recitarle come se venissero dal profondo essere che è in noi; in questo modo non ci sarà mai una Tefillà uguale all’altra, né le Benedizioni di tutti i giorni saranno ripetitive, né – infine – la Tefillà sarà per noi un peso.

Nella prossima puntata, studieremo come si prega oggi, entrando anche in alcuni importanti concetti di Halakhà.

(Foto: Marc Chagall, L’ebreo in preghiera (Il rabbino di Vitebsk, 1914)