Parasha

Parashot Nitzavim e Vayelech. Il rinnovamento personale e nazionale, l’ultima eredità data da D-o a Mosè

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Il momento era arrivato. Mosè stava per morire. Aveva visto morire prima di lui sua sorella Miriam e il fratello Aaron. Aveva pregato Dio – non di vivere per sempre, nemmeno di vivere più a lungo, ma semplicemente: “Lasciami andare e vedere il buon paese oltre il Giordano” (Deuteronomio 3:25). Lasciami completare il viaggio. Lasciami raggiungere la destinazione. Ma Dio disse di no: “Basta”, disse il Signore. “Non parlarmi più di questa faccenda”. (Deuteronomio 3:26) Dio, che aveva acconsentito a quasi ogni altra preghiera fatta da Mosè, tuttavia questa gliela rifiutò.

Cosa ha fatto allora Mosè in questi ultimi giorni della sua vita? Emanò due comandi, tra questi l’ultimo dei 613 precetti, che avrebbero avuto conseguenze significative per il futuro dell’ebraismo e del popolo ebraico.
Il primo è noto come Hakhel, l’indicazione secondo la quale il re avrebbe dovuto convocare il popolo a riunirsi durante Succot dopo il settimo anno di Shemittah: “Alla fine di ogni ciclo di sette anni, nell’anno della cancellazione dei debiti, durante la festa delle Capanne, quando tutto Israele verrà a presentarsi davanti al Signore tuo Dio nel luogo che avrà scelto, leggerai questo ultimo libro della Torà davanti a loro così che giunga alle loro orecchie. Raduna il popolo, uomini, donne, bambini e stranieri che abitano nelle tue città, perché ascoltino e imparino a temere il Signore tuo Dio e a mettere in pratica tutte le parole di questa legge. I loro figli, che non la conoscono, la ascoltino e imparino a temere il Signore tuo Dio finché vivrete nel paese in cui state per entrare per prenderne possesso attraversando il Giordano». (Deuteronomio 31:10-13)

Non c’è alcun riferimento specifico a questo precetto negli ultimi libri di Tanach, ma ci sono resoconti di raduni molto simili: cerimonie di rinnovamento del patto, in cui il re o un suo equivalente riuniva la nazione, leggendo la Torà o ricordando al popolo la sua storia, e invitandoli a riaffermare i termini del loro destino di popolo in alleanza con Dio.

Questo, è ciò che Mosè aveva fatto nell’ultimo mese della sua vita. Il libro del Deuteronomio nel suo insieme è una riaffermazione del patto, quasi quarant’anni dopo, a una generazione successiva al patto originale del Monte Sinai. C’è un altro esempio in proposito nell’ultimo capitolo del libro di Giosuè (vedi capitolo 24), dopo che aveva adempiuto al suo mandato come successore di Mosè, portando il popolo oltre il Giordano, guidandolo nelle battaglie e insediandosi nella terra promessa.

Un altro episodio analogo accadde molti secoli dopo, durante il regno del re Giosia. Suo nonno, Menasse, che regnò per cinquantacinque anni, fu uno dei peggiori re di Giuda, introdusse varie forme di idolatria, compreso il sacrificio di bambini. Giosia cercò di riportare la nazione alla sua fede, ordinando tra le altre cose la purificazione e la ristrutturazione del Tempio. Fu nel corso di questo restauro che fu scoperta una copia della Torà, sigillata in un nascondiglio, per evitare che venisse distrutta durante i molti decenni in cui fiorì l’idolatria e la Torà fu quasi dimenticata. Il re, profondamente colpito da questa scoperta, convocò un’assemblea nazionale sul modello di Hakhel: “Allora il re convocò tutti gli anziani di Giuda e di Gerusalemme. Salì al Tempio del Signore con il popolo di Giuda, gli abitanti di Gerusalemme, i sacerdoti e i profeti, tutto il popolo dal più piccolo al più grande. Lesse alle loro orecchie tutte le parole del libro dell’Alleanza, che era stato trovato. Il re si fermò presso la colonna e rinnovò l’alleanza alla presenza del Signore: seguite il Signore e osservate i suoi precetti, statuti e decreti con tutto il vostro cuore e tutta la vostra anima, confermando così le parole dell’Alleanza scritte in questo libro. Allora tutto il popolo si impegnò a rispettarle”. (2 Re 23:1-3)

La cerimonia più famosa di Hakhel fu il raduno nazionale convocato da Ezrà e Neemia dopo la seconda ondata di rimpatriati dalla Babilonia (Neemia 8-10). In piedi su una piattaforma vicino a una delle porte del Tempio, Ezrà lesse la Torà all’assemblea, dopo aver posizionato i Leviti in mezzo alla folla in modo che potessero spiegare al popolo cosa veniva detto. La cerimonia, iniziata a Rosh HaShanà, culminò dopo Succot quando il popolo collettivamente “si impegnò, con un’ammonizione e un giuramento, a seguire la Legge di Dio data attraverso Mosè servo di Dio ad obbedire scrupolosamente tutti i precetti, regolamenti e decreti del Signore nostro Dio”. (Neemia 10:29)

L’altro comando – l’ultimo che Mosè diede al popolo – era contenuto nelle parole: “Ora scrivi questo cantico e insegnalo agli Israeliti”, inteso dalla tradizione rabbinica come l’ordine di scrivere, o almeno prendere parte alla scrittura, un Sefer Torà.
Perché proprio questi due comandi, in questo momento?

Qui si stava svolgendo una profonda transazione. Ricordiamo che Dio era sembrato brusco nel respingere la richiesta di Mosè di poter attraversare il Giordano. “Basta così… Non parlarmi più di questa faccenda”. È questa la Torà, è questa la sua ricompensa? È così che Dio ha ripagato il più grande dei profeti? Sicuramente no.

Con i due ultimi comandamenti Dio insegnò a Mosè, e attraverso di lui agli ebrei nel corso dei secoli, cos’è l’immortalità – sulla terra, non solo in cielo. Siamo mortali perché siamo fisici e nessun organismo fisico vive per sempre. Cresciamo, invecchiamo, diventiamo fragili, moriamo. Ma non siamo solo fisici. Siamo anche spirituali. In questi ultimi due precetti ci viene insegnato cosa significa far parte di uno spirito che non è morto da quattromila anni e non morirà finché ci saranno il sole, la luna e le stelle.

Dio ha mostrato a Mosè, e attraverso lui a noi, come entrare a far parte di una civiltà che non invecchia mai. Rimane giovane perché si rinnova continuamente. Gli ultimi due comandamenti della Torà riguardano il rinnovamento: prima collettivo, poi individuale.

Hakhel, la cerimonia di rinnovo del patto ogni sette anni, assicurava che la nazione si dedicasse regolarmente alla propria missione. Ho spesso sostenuto che esiste un luogo al mondo in cui questa cerimonia di rinnovamento dell’Alleanza ha ancora luogo: gli Stati Uniti d’America.

Il concetto di patto giocò un ruolo decisivo nella politica europea del XVI e XVII secolo, soprattutto nella Ginevra di Calvino e in Scozia, Olanda e Inghilterra. Il suo impatto più duraturo, però, si ebbe sull’America, dove fu deputato con i primi coloni puritani e rimane parte della sua cultura politica fino ad oggi. Quasi ogni discorso inaugurale presidenziale – ogni quattro anni dal 1789 – è stato, esplicitamente o implicitamente, una cerimonia di rinnovamento del patto, una forma contemporanea di Hakhel. Nel 1987, parlando alla celebrazione del bicentenario della Costituzione americana, il presidente Ronald Reagan descrisse la costituzione come una sorta di “patto che abbiamo stretto non solo con noi stessi ma con tutta l’umanità… È un patto umano; sì, e oltre a ciò, un patto con l’Essere Supremo al quale i nostri padri fondatori chiedevano costantemente assistenza”. Il dovere dell’America, è “rinnovare costantemente il proprio patto con l’umanità… per completare l’opera iniziata 200 anni fa, quella grande e nobile opera che è la vocazione particolare dell’America: il trionfo della libertà umana sotto Dio”.

Se Hakhel è il rinnovamento nazionale, il precetto secondo cui ciascuno di noi dovrebbe prendere parte alla stesura di un nuovo Sefer Torà è il rinnovamento personale. Era il modo di Mosè di dire a tutti: non vi basta dire, ho ricevuto la Torà dai miei genitori (o nonni o bisnonni). Bisogna prenderla e renderla nuova in ogni generazione.

Una delle caratteristiche più sorprendenti della vita ebraica è che, da Israele a Palo Alto, gli ebrei sono tra gli utenti più entusiasti della tecnologia informatica al mondo e hanno contribuito in modo sproporzionato al suo sviluppo (Google, Facebook, Waze). Ma scriviamo ancora la Torà esattamente come si faceva migliaia di anni fa: a mano, con una penna, su un rotolo di pergamena. Questo non è un paradosso; è una verità profonda. Le persone che portano con sé il proprio passato, possono costruire il futuro senza paura.

Il rinnovamento è una delle imprese umane più difficili. Alcuni anni fa sedevo con l’uomo che stava per diventare Primo Ministro britannico. Nel corso della nostra conversazione disse: “Ciò che prego di più è che quando arriveremo lì (intendeva, 10 Downing Street), non dimenticherò mai il motivo per cui volevo arrivarci”. Sospetto che avesse in mente le famose parole di Harold Macmillan, primo ministro britannico tra il 1957 e il 1963, che, quando gli fu chiesto cosa temesse di più in politica, rispose: “Gli eventi, caro ragazzo, gli eventi”.

Le cose accadono. Veniamo trascinati da venti passeggeri, coinvolti in problemi che talvolta non sono nostri e andiamo alla deriva. Quando ciò accade, che si tratti di individui, istituzioni o nazioni, invecchiamo. Dimentichiamo chi siamo e perché. Alla fine veniamo superati da persone (o organizzazioni o culture) che sono più giovani, più desiderose o più motivate di noi.

L’unico modo per rimanere giovani, desiderosi e motivati ​​è attraverso il rinnovamento periodico, ricordando a noi stessi da dove veniamo, dove stiamo andando e perché. A quali ideali siamo legati? Quale cammino siamo chiamati a continuare? Di quale storia facciamo parte?

Con quanta precisione, quindi, e quanta bellezza, proprio nel momento in cui il più grande dei profeti affrontò la propria mortalità, Dio diede a lui, e a noi, il segreto dell’immortalità – non solo in cielo, ma quaggiù sulla terra. Poiché quando ci atteniamo ai termini dell’alleanza e la rinnoviamo nella nostra vita, continuiamo a vivere in coloro che verranno dopo di noi, sia attraverso i nostri figli, o i nostri discepoli, o coloro che abbiamo aiutato o influenzato. “Rinnoviamo i nostri giorni come nei tempi antichi” (Lamentazioni 5:21). Mosè morì, ma ciò che insegnò e ciò che cercò sopravvive ancora.

di Rav Jonathan Sacks zz”l