Parashat Vaykrà. Il sacrificio è il dono della parte più animale di noi a Dio

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Portando ciò che è animale dentro di noi vicino a Dio, permettiamo alla materia di essere permeata dallo spirito e diventiamo qualcos’altro: non più schiavi della natura, ma servitori del Dio vivente.

 

Le leggi dei sacrifici che dominano i primi capitoli del Libro del Levitico sono tra le più difficili della Torà da rapportare al presente. Sono passati quasi duemila anni da quando il Tempio è stato distrutto e il sistema sacrificale è giunto alla fine. Tuttavia, i pensatori ebrei, specialmente quelli più mistici, si sono sforzati di comprendere il significato interiore dei sacrifici e il messaggio che trasmettevano sulla relazione tra l’umanità e Dio. In questo modo sono riusciti a salvare il loro spirito, anche se la loro realizzazione fisica non era più possibile. Tra le spiegazioni più semplici ma profonde vi è il commento di Rabbi Shneur Zalman di Liadi, il primo Rebbe di Lubavitch. Egli notò una particolarità grammaticale nella seconda riga di questa Parashà: Parla ai Figli d’Israele e di’ loro: “Quando uno di voi offre un sacrificio al Signore, il sacrificio deve essere preso dal bestiame, dalle pecore o dalle capre”. (Levitico 1:2)

Così dovrebbe apparire il versetto se fosse costruito secondo le normali regole grammaticali. Tuttavia, l’ordine delle parole nella frase in ebraico è strano e inaspettato. Ci aspetteremmo di leggere: adam mikem ki yakriv, “quando uno di voi offre un sacrificio”. Invece, il versetto dice: adam ki yakriv mikem, “quando uno offre un sacrificio di voi”.

L’essenza del sacrificio, disse Rabbi Shneur Zalman, è che offriamo noi stessi. Portiamo a Dio le nostre facoltà, le nostre energie, i nostri pensieri e le nostre emozioni. La forma fisica del sacrificio – un animale offerto sull’altare – è solo una manifestazione esteriore di un atto interiore. Il vero sacrificio è mikem, “di voi”. Diamo a Dio qualcosa di noi stessi.

Ma che cosa esattamente di noi stessi offriamo a Dio quando facciamo un sacrificio? I mistici ebrei, tra cui Rabbi Shneur Zalman, parlavano di due anime che ognuno di noi possiede dentro di sé: l’anima animale (nefesh habeheimit) e l’anima divina. Da un lato, siamo esseri fisici. Facciamo parte della natura. Abbiamo bisogni fisici: cibo, bevande, riparo. Nasciamo, viviamo, moriamo. Come dice il Qoelet: “La sorte dell’uomo è come quella degli animali; la stessa sorte li attende entrambi: come muore l’uno, così muore l’altro. Entrambi hanno lo stesso respiro; l’uomo non ha alcun vantaggio sugli animali. Tutto è solo un soffio fugace. (Qoelet 3:19)

Eppure non siamo semplicemente animali. Dentro di noi vi sono desideri immortali. Possiamo pensare, parlare e comunicare. Possiamo, attraverso le parole e l’ascolto, entrare in contatto con gli altri. Siamo l’unica forma di vita nell’universo a noi nota che può porsi la domanda “perché?”. Possiamo formulare idee ed essere mossi da alti ideali. Non siamo governati solo dagli istinti biologici.

Il Salmo 8 è un inno di meraviglia su questo tema:
“Quando considero i Tuoi cieli,
l’opera delle Tue dita,
la luna e le stelle
che hai posto in essere,
che cos’è l’uomo perché Tu lo ricordi,
il figlio dell’uomo perché Te ne prenda cura?
Eppure lo hai fatto di poco inferiore agli angeli
e lo hai coronato di gloria e di onore.
Gli hai dato dominio sulle opere delle Tue mani;
hai posto tutto sotto i suoi piedi.” (Salmi 8:4–7)

Fisicamente, siamo quasi nulla; spiritualmente, siamo sfiorati dalle ali dell’eternità. Abbiamo un’anima divina. Il senso del sacrificio, inteso psicologicamente, è dunque chiaro. Ciò che offriamo a Dio non è (solo un animale, ma) il nefesh habeheimit, l’anima animale dentro di noi.

Come si realizza questo in concreto? Un indizio ci viene dai tre tipi di animali menzionati nel versetto della seconda riga della Parashà di Vayikrà (Levitico 1:2): beheimah (animale), bakar (bestiame) e tzon (gregge). Ognuno rappresenta un tratto animale della personalità umana.

Beheimah rappresenta l’istinto animale stesso. Il termine si riferisce agli animali domestici, non implica gli istinti feroci del predatore. Significa piuttosto qualcosa di più docile. Gli animali passano il tempo a cercare cibo. Le loro vite sono limitate alla lotta per la sopravvivenza. Sacrificare l’animale dentro di noi significa essere mossi da qualcosa di più della semplice sopravvivenza.

Wittgenstein, quando gli fu chiesto quale fosse il compito della filosofia, rispose: “Mostrare alla mosca la via d’uscita dalla bottiglia per mosche.”
La mosca, intrappolata nella bottiglia, sbatte la testa contro il vetro cercando un’uscita. L’unica cosa che non fa è guardare in alto.
L’anima divina dentro di noi è la forza che ci spinge a guardare in alto, oltre il mondo fisico, oltre la mera sopravvivenza, alla ricerca di significato, scopo, meta

La parola ebraica bakar, bestiame, ci ricorda il termine boker, alba, letteralmente “rompere attraverso”, come i primi raggi del sole che penetrano l’oscurità della notte. Il bestiame, quando carica, rompe le barriere. Se non è contenuto dai recinti, non rispetta alcun confine. Sacrificare il bakar significa imparare a riconoscere e rispettare i confini – tra sacro e profano, puro e impuro, permesso e proibito.

Infine, la parola tzon, gregge, rappresenta l’istinto del branco – la potente spinta a muoversi in una certa direzione semplicemente perché altri fanno lo stesso. Le grandi figure dell’ebraismo – Abramo, Mosè, i Profeti – si distinsero proprio per la loro capacità di stare lontani dal gregge, di essere diversi, di sfidare gli idoli del tempo, di rifiutare di cedere alle mode intellettuali del momento. Questo, in ultima analisi, è il significato della santità nell’ebraismo. Kadosh, il sacro, è qualcosa di separato, differente, distinto. Gli ebrei sono stati l’unica minoranza della storia che ha costantemente rifiutato di assimilarsi alla cultura dominante o di convertirsi alla fede dominante.

Il sostantivo korban, “sacrificio”, e il verbo lehakriv, “offrire qualcosa in sacrificio”, significano in realtà “ciò che viene avvicinato” e “l’atto di avvicinare”. L’elemento chiave non è tanto rinunciare a qualcosa (il significato comune di sacrificio), ma piuttosto avvicinare qualcosa a Dio. Lehakriv significa portare l’elemento animale dentro di noi per essere trasformato dal fuoco divino che una volta ardeva sull’altare, e che ancora arde nel cuore della preghiera se cerchiamo veramente la vicinanza con Dio.

Per una delle ironie della storia, questa antica idea è improvvisamente diventata contemporanea. Il darwinismo, la decodifica del genoma umano e il materialismo scientifico (l’idea che esista solo la materia) hanno portato alla diffusa conclusione che siamo tutti animali, niente di più e niente di meno. Condividiamo il 98% dei nostri geni con i primati. Siamo, come diceva Desmond Morris (zoologo britannico 1927-…), “la scimmia nuda”. Secondo questa visione, l’Homo sapiens esiste per puro caso. Siamo il risultato di una serie casuale di mutazioni genetiche e, semplicemente, siamo più adatti alla sopravvivenza rispetto ad altre specie. Il nefesh habeheimit, l’anima animale, è tutto ciò che siamo.

La confutazione di questa idea – ed è sicuramente una delle più riduttive mai sostenute da menti intelligenti – risiede proprio nell’atto stesso del sacrificio, così come lo intendevano i mistici. Possiamo reindirizzare i nostri istinti animali. Possiamo elevarci al di sopra della mera sopravvivenza. Siamo capaci di rispettare i confini. Possiamo uscire dal nostro ambiente. Come ha detto il neuroscienziato di Harvard Steven Pinker: “La natura non detta ciò che dovremmo accettare o come dovremmo vivere”, aggiungendo: “E se ai miei geni non piace, possono anche andare a farsi un bagno nel lago.” Oppure, come affermò con maestosità Katharine Hepburn a Humphrey Bogart in The African Queen: “La natura, signor Allnut, è ciò che siamo stati messi sulla terra per superare.”

Possiamo trascendere la beheimah, il bakar e il tzon. Nessun animale è capace di auto-trasformazione, ma noi sì. La poesia, la musica, l’amore, la meraviglia – le cose che non hanno valore per la sopravvivenza, ma che parlano al nostro senso più profondo dell’essere – ci dicono che non siamo solo animali. Portando ciò che è animale dentro di noi vicino a Dio, permettiamo alla materia di essere permeata dallo spirito e diventiamo qualcos’altro: non più schiavi della natura, ma servitori del Dio vivente.

Redazione Rabbi Jonathan Sacks zzl