una parashà

Parashat Vayikrà. Ognuno di noi ha un compito da svolgere voluto da D-o

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
La Dichiarazione di indipendenza americana parla dei diritti inalienabili della vita, della libertà e della ricerca della felicità. Recentemente, seguendo il lavoro pionieristico di Martin Seligman (1942-…) fondatore della psicologia positiva, sono stati pubblicati centinaia di libri sulla felicità. Eppure c’è qualcosa di ancora più fondamentale nel senso di una vita ben vissuta, vale a dire il significato.

I due aspetti sembrano simili. È facile supporre che le persone che trovano un significato siano felici e che le persone che sono felici abbiano trovato un significato. Ma non sono la stessa cosa, né si sovrappongono sempre. La felicità è in gran parte una questione di soddisfare bisogni e desideri. Il significato, al contrario, riguarda un senso di scopo nella vita, specialmente dando contributi positivi alla vita degli altri. La felicità riguarda in gran parte come ti senti nel presente. Il significato riguarda il modo in cui giudichi la tua vita nel suo insieme: passato, presente e futuro.

La felicità è associata al prendere, cioè al dare. Gli individui che soffrono di stress, preoccupazione o ansia non sono felici, ma possono vivere vite ricche di significato. Le disgrazie passate riducono la felicità presente, ma le persone spesso collegano tali momenti con la scoperta del significato. Inoltre, la felicità non è esclusiva degli esseri umani. Anche gli animali provano appagamento quando i loro desideri e bisogni sono soddisfatti. Ma il significato è un fenomeno tipicamente umano. Non ha a che fare con la natura ma con la cultura. Non si tratta di ciò che ci accade, ma di come lo interpretiamo. Può esserci felicità senza significato e può esserci significato in assenza di felicità, anche in mezzo all’oscurità e al dolore.

In un affascinante articolo su The Atlantic*, leggiamo “C’è di più nella vita che essere felici”, Emily Smith ha sostenuto che la ricerca della felicità può portare a una vita relativamente superficiale, egocentrica, persino egoista. Ciò che rende diversa la ricerca del significato è che riguarda qualcosa di più grande del sé.

Nessuno ha fatto di più per inserire la questione del significato nel discorso moderno del defunto Viktor Frankl (1905-1997 neurologo psichiatra e filosofo austriaco) che ha avuto un posto di rilievo in questi saggi sulla spiritualità. Nei tre anni trascorsi ad Auschwitz, Frankl è sopravvissuto e ha aiutato gli altri a sopravvivere ispirandoli a scoprire uno scopo nella vita anche in mezzo all’inferno sulla terra. Sapeva che nei campi moriva chi perdeva la voglia di vivere. Fu lì che formulò le idee che in seguito trasformò in un nuovo tipo di psicoterapia basato su quella che chiamò “la ricerca di significato da parte dell’uomo”. Il suo libro con quel titolo, scritto nel corso di nove giorni nel 1946, ha venduto più di dieci milioni di copie in tutto il mondo ed è considerato una delle opere più influenti del ventesimo secolo.

Frankl diceva che il modo per trovare un significato non era chiedere cosa vogliamo dalla vita. Dovremmo invece chiederci cosa vuole la vita da noi. Ognuno di noi, ha detto, è unico: nei nostri doni, nelle nostre capacità, nelle nostre attitudini e talenti, e nelle circostanze della nostra esistenza. Per ciascuno di noi, quindi, c’è un compito che solo noi possiamo svolgere. Questo non significa che siamo migliori degli altri. Ma se crediamo di essere qui per una ragione, allora c’è un tikkun, una riparazione che solo noi possiamo eseguire; un frammento di luce che solo noi possiamo riscattare; un atto di gentilezza, o coraggio, o generosità, o ospitalità che solo noi possiamo compiere; anche una parola di incoraggiamento o un sorriso che solo noi possiamo dare, perché siamo qui, in questo luogo, in questo momento, di fronte a questa persona in questo istante della sua vita.

«La vita è un compito», diceva, e aggiungeva: «L’uomo religioso si differenzia dall’uomo apparentemente irreligioso solo perché vive la sua esistenza non semplicemente come un compito, ma come una missione». Lui o lei è consapevole di essere convocato, chiamato, da una Sorgente. “Per migliaia di anni quella fonte è stata chiamata Dio.”

Questo è il significato della parola che dà alla nostra parashà, e al terzo libro della Torà, il suo nome: Vayikra, “Ed Egli chiamò”. Il significato preciso di questo versetto iniziale è difficile da capire. Tradotto letteralmente si legge: “E chiamò Mosè, e Dio gli parlò dalla tenda del convegno, dicendo…” (Vaikra 1:1)

La prima frase sembra essere ridondante. Se ci viene detto che Dio parlò a Mosè, perché dire in aggiunta: “E chiamò”? Rashi spiega come segue: E chiamò Mosè: Ogni [volta che Dio comunicava con Mosè, è segnalato dall’espressione] “E parlò”, o “e disse”, o “e comandò”, era sempre preceduto da [Dio] che chiamava [a Mosè per nome]. (Rashi su Vayikra 1:1). “Chiamò” è un’espressione di tenerezza. È l’espressione usata dagli angeli ministranti, poiché dice: “E l’uno chiamò l’altro”. (Isaia 6:3)

Vayikra, ci dice Rashi, significa essere chiamato a un compito con amore. Da qui nasce una delle idee chiave del pensiero occidentale, ovvero il concetto di vocazione, cioè la scelta di una carriera o di uno stile di vita non solo perché lo si vuole fare, o perché offre certe benefici, ma perché ti senti chiamato a farlo. Senti che questo è il tuo significato e la tua missione nella vita. Questo è ciò per cui sei stato messo sulla terra.

Ci sono molte di queste chiamate nel Tanach. Ci fu la chiamata che Abramo udì e che lo spinse a lasciare la sua terra e la sua famiglia (Genesi 12:1). Ci fu la chiamata di Mosè al roveto ardente (Esodo 3:4). Ci fu quella vissuta da Isaia quando vide in una visione mistica di Dio sul trono circondato da angeli: Allora udii la voce del Signore che diceva: «Chi manderò? E chi andrà per noi? E ho detto: “Eccomi. Manda me!” (Isaia 6:8)

Una delle più toccanti chiamate è la storia del giovane Samuele, dedicato da sua madre Hannah a servire nel santuario di Shiloh dove agì come assistente del sacerdote Eli. Nel letto di notte egli sentì una voce che chiamava il suo nome. Pensò che fosse Eli. Corse a vedere cosa voleva ma Eli gli disse che non lo aveva chiamato. Questo accadde una seconda volta e poi una terza, a quel punto Eli si rese conto che era Dio che chiamava il bambino. Disse allora a Samuele che la prossima volta che la voce avesse chiamato il suo nome, avrebbe dovuto rispondere: “Parla, Signore, perché il tuo servo sta ascoltando”. Al bambino non venne in mente che potesse essere Dio a chiamarlo a una missione, ma lo era. Iniziò così la sua carriera come profeta, giudice e untore dei primi due re di Israele, Saul e Davide (vedi 1 Samuele 3).

Quando vediamo un torto da riparare, una malattia da guarire, un bisogno da soddisfare, e lo sentiamo parlare con noi, è allora che ci avviciniamo il più possibile in un’era post-profetica all’ascolto di Vayikra, il messaggio di Dio la sua chiamata. E perché la parola compare qui, all’inizio del terzo e centrale libro della Torà? Perché il libro del Levitico parla di sacrifici, e una vocazione parla di sacrifici. Siamo disposti a fare sacrifici quando li sentiamo parte del compito che siamo chiamati a svolgere.

Dal punto di vista dell’eternità, a volte possiamo essere sopraffatti dal senso della nostra insignificanza. Non siamo altro che un’onda nell’oceano, un granello di sabbia sulla riva del mare, un granello di polvere sulla superficie dell’infinito. Eppure siamo qui perché Dio ha voluto che fossimo, perché c’è un compito che Egli vuole che svolgiamo. La ricerca del significato è la ricerca di questo compito.

Ognuno di noi è unico. Anche i gemelli geneticamente identici sono diversi. Ci sono cose che solo noi possiamo fare, noi che siamo ciò che siamo, in questo tempo, in questo luogo e in queste circostanze. Per ognuno di noi Dio ha un compito: lavoro da compiere, gentilezza da mostrare, dono da fare, amore da condividere, solitudine da alleviare, dolore da guarire o vite spezzate da riparare. Discernere quel compito, ascoltare Vayikra, la chiamata di Dio, è una delle grandi sfide spirituali per ciascuno di noi.

Come facciamo a sapere qual’è il nostro compito? Alcuni anni fa, nel mio libro To Heal a Fractured World, ho offerto questo come guida, che mi sembra ancora avere un senso: ciò che vogliamo fare incontra ciò che deve essere fatto, è lì che Dio vuole che siamo.

Di rav Jonathan Sacks zzl.

* The Atlantic è una rivista statunitense di cultura, letteratura, politica estera, salute, economia, tecnologia e scienza politica, fondata nel 1857 da Ralph Waldo Emerson, Henry Wadsworth Longfellow, Oliver Wendell Holmes, James Russell Lowell e altri, a Boston.