Parashat Shemot. Essere forti è il punto di forza ma anche di debolezza del popolo ebraico

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Ero solito dire, scherzando, che la prova che Mosè era il più grande dei profeti fu quella nella quale Dio gli chiese di guidare il popolo ebraico, ed egli rifiutò di volerlo fare per quattro volte: “Chi sono io per poterli guidare? Non crederanno in me. Non sono un uomo di parole. Ti prego, manda qualcun altro”.

È come se Mosè sapesse, con una precisione straordinaria, a cosa sarebbe andato incontro. In qualche modo aveva intuito in anticipo che può essere difficile essere un ebreo, ma essere un leader di ebrei è quasi impossibile.

Come faceva Mosè a saperlo? La risposta la troviamo molti anni indietro, nella sua giovinezza. Fu allora che, cresciuto, andò a guardare per la prima volta il suo popolo. Li vide ridotti in schiavitù, costretti a lavori pesanti.

Vide un egiziano che picchiava un ebreo, un membro del suo popolo. Intervenne e gli salvò la vita. Il giorno dopo vide due ebrei che litigavano e di nuovo intervenne. Questa volta l’uomo che fermò gli disse: “Chi ti ha nominato nostro capo e giudice?”.

Notate che Mosè non aveva ancora pensato di essere un leader e già la sua leadership veniva messa in discussione. E queste sono le prime parole documentate rivolte a Mosè da un compagno ebreo. Fu la sua ricompensa per aver salvato la vita di un israelita il giorno prima.

E sebbene Dio abbia convinto Mosè, o gli abbia ordinato di guidare il popolo, questo non ha mai smesso di essere difficile e spesso demoralizzante per lui. Mosè dovette affrontare oltre quarant’anni alla guida di un gruppo di persone inclini a criticare la propria situazione, a peccare, a ribellarsi e a litigare tra loro.

In uno spaventoso spettacolo di ingratitudine, gli israeliti si lamentarono più volte nel libro di Shemot, dopo aver assistito ad atti miracolosi da parte di Dio e del suo capo designato. A Marah si lamentarono che l’acqua era amara. Poi, in termini più aggressivi, protestarono per la mancanza di cibo (“Se fossimo morti per mano del Signore in Egitto! Lì ci siamo seduti attorno a pentole di carne e abbiamo mangiato tutto il cibo che volevamo, ma tu ci hai portato in questo deserto per far morire di fame tutta questa assemblea”). Più tardi, a Refidim, brontolarono per l’assenza di acqua, spingendo Mosè a dire a Dio: “Cosa devo fare con questo popolo? Sono quasi pronti a lapidarmi!”.

In Devarim, Mosè ricorda il momento in cui disse a Dio: “Come posso io stesso portare da solo i Tuoi problemi, i Tuoi fardelli e le Tue controversie” (Deuteronomio 1:12). E poi, in Beha’alotecha, Mosè subisce quello che ho spesso definito un crollo emotivo: Chiese al Signore: “Perché hai portato questo guaio al tuo servo? Che cosa ho fatto per dispiacerti, perché tu mi abbia messo addosso il peso di tutta questa gente? Ho forse concepito io tutta queste persone? Li ho fatti nascere io? Perché mi dici di portarli in braccio, come una nutrice porta un neonato, nella terra che hai promesso per giuramento ai loro antenati? . . . Non posso portare tutta questa gente da solo; il fardello è troppo pesante per me. Se è così che mi tratti, ti prego, uccidimi pure – se ho trovato grazia ai tuoi occhi – non lasciare che vada incontro alla mia rovina”. (Numeri 11:11-15) E questo è stato detto, non dimentichiamolo, dal più grande leader ebreo di tutti i tempi. Perché gli ebrei sono quasi impossibili da guidare?

La risposta è stata data dal più grande ribelle della leadership di Mosè, Korach. Ascoltate attentamente quello che dissero lui e i suoi sostenitori: Vennero in gruppo ad opporsi a Mosè e Aronne e dissero loro: “Avete esagerato! Tutta la comunità è santa, ognuno di loro lo è, e il Signore è con loro. Perché dunque vi ponete al di sopra dell’assemblea del Signore?”. (Numeri 16:3) Le motivazioni di Korach erano sbagliate. Parlava come un democratico, ma voleva essere un autocrate. Voleva essere lui stesso un leader. Ma nelle sue parole c’è un accenno alla posta in gioco.

Gli ebrei sono una nazione di individui forti. “L’intera comunità è santa, ognuno di loro lo è”. Lo sono sempre stati. Lo sono ancora. Questa è la loro forza e la loro debolezza. Ci sono stati momenti in cui hanno avuto difficoltà a servire Dio. Ma di certo non avrebbero servito nessuno di meno. Erano il popolo “dal collo rigido”, e le persone con il collo rigido hanno difficoltà a inchinarsi.

I profeti non si sarebbero inchinati ai re. Mordechai non si sarebbe inchinato ad Haman. I Maccabei non si sarebbero inchinati ai Greci. I loro successori non si sarebbero inchinati ai Romani. Gli ebrei sono ferocemente individualisti. A volte questo li rende inespugnabili. Li rende anche quasi ingovernabili, quasi impossibili da guidare.

Questo è ciò che Mosè scoprì in gioventù quando, cercando di aiutare il suo popolo, la loro prima risposta fu: “Chi ti ha nominato nostro capo e giudice?”. Ecco perché esitava tanto ad accettare la sfida della leadership e perché rifiutò per quattro volte.

Di recente si è discusso molto nell’ebraismo britannico e americano sulla necessità di una posizione collettiva concordata di sostegno incondizionato allo Stato e al governo di Israele, o se la nostra posizione pubblica debba riflettere le profonde differenze che esistono oggi tra gli ebrei, all’interno o all’esterno di Israele.

A mio parere, Israele ha bisogno del nostro sostegno in questo momento critico. Ma il dibattito che si è svolto è superfluo. Gli ebrei sono una nazione di individui forti che, salvo rare eccezioni storiche, non sono mai stati d’accordo su nulla. Questo li rende inattaccabili, ma anche inespugnabili. Le buone e le cattive notizie vanno di pari passo. E se, come crediamo, Dio ha amato e ama ancora questo popolo nonostante tutti i suoi difetti, possiamo noi fare diversamente?

Di Rabbi Jonathan Sacks zzl