Parashat Mikketz: il tumultuoso viaggio della giovane vita di Giuseppe

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò

Qualcosa di straordinario accade tra la parashà precedente e questa. È quasi come se la pausa di una settimana tra loro fosse essa stessa parte della storia.

Ricorda la parashà della scorsa settimana sull’infanzia di Giuseppe, concentrandoti non su ciò che è accaduto, ma su chi era responsabile degli eventi. Durante il tumultuoso viaggio della giovane vita di Giuseppe, egli è ritratto come passivo, non attivo; chi soffre, non chi compie; l’oggetto dei verbi, non il loro soggetto.

Era suo padre che lo amava e gli diede il mantello riccamente ricamato. Erano i suoi fratelli che lo invidiavano e lo odiavano. Aveva dei sogni, ma noi non sogniamo perché lo vogliamo ma perché, in qualche modo misterioso ancora non del tutto compreso, giungono spontanei nella nostra mente addormentata.

I suoi fratelli, che si prendevano cura del bestiame lontano da casa, progettarono di ucciderlo. Lo hanno gettato in un pozzo. È stato venduto come schiavo. Nella casa di Potifar acquisì una posizione strategica; tuttavia, il testo afferma chiaramente che ciò non era dovuto a Giuseppe stesso, ma a Dio: “Dio era con Giuseppe, ed egli divenne un uomo di successo. Viveva nella casa del suo padrone egiziano. Il suo padrone vide che Dio era con lui e che Dio gli concedeva il successo in tutto ciò che faceva”. (Genesi 39:2-3)

La moglie di Potifar cercò di sedurlo e fallì, ma anche qui Giuseppe fu passivo, non attivo. Lui non cercava lei, lei cercava lui. Alla fine, “lo afferrò per il suo mantello dicendo: ‘Giaci con me!’. Ma egli le lasciò in mano la veste, fuggì e corse fuori” (Genesi 39:12). Usando l’indumento come prova, lo fece imprigionare con un’accusa totalmente falsa. Non c’era niente che Josef potesse fare per dimostrare la sua innocenza.

In prigione, di nuovo divenne un leader, un manager, ma ancora una volta la Torà fa di tutto per attribuire questo non a Giuseppe ma all’intervento divino: “Dio era con Giuseppe e gli mostrò la sua benevolenza, concedendogli il favore agli occhi del capo della prigione… Qualunque cosa fosse fatta lì, Dio era colui che l’aveva fatta. Il capo della prigione non prestava attenzione a tutto ciò che era affidato a Giuseppe, perché Dio era con lui; e qualunque cosa facesse, Dio la faceva prosperare”. (Genesi 39:21-23)

Quindi Giuseppe incontrò il capo coppiere e il capo panettiere del faraone. Avevano dei sogni e Giuseppe li interpretò, insistendo che non era lui ma Dio che lo stava facendo: “Josef disse loro: – Le interpretazioni appartengono a Dio. Raccontatemi i vostri sogni”. (Genesi 40:8)

Non c’è niente di simile da nessun’altra parte nel Tanach. Qualunque cosa sia accaduta a Giuseppe era il risultato delle azioni di qualcun altro: quelle di suo padre, dei suoi fratelli, della moglie del suo padrone, del capo della prigione o di Dio stesso. Giuseppe era la palla lanciata da mani diverse dalle sue.

Quindi, essenzialmente per la prima volta nell’intera storia, Josef decise di prendere in mano il destino. Sapendo che il coppiere stava per essere rimesso al suo posto, lo pregò di portare il suo caso all’attenzione del Faraone: “Ricordati di me quando le cose ti andranno bene per favore, fammi la gentilezza di menzionarmi al Faraone, facendomi così uscire da questo posto. Perché io sono stato rapito dal paese degli Ebrei e anche qui non ho fatto nulla perché mi mettessero in prigione”. (Genesi 40: 14–15)

Era stata commessa una doppia ingiustizia e Josef la vedeva come la sua unica possibilità di riconquistare la libertà. Ma la fine della parashà ecco un colpo devastante: “Il capo coppiere non si ricordò di Giuseppe e lo dimenticò”. (Genesi 40:23) L’anticlimax è intenso, sottolineato dal doppio verbo “non ricordava” e “dimenticato”. Percepiamo Giuseppe che aspetta giorno dopo giorno notizie. Nessuno arriva. La sua ultima, migliore speranza è svanita. Non sarà mai libero. O così sembra.

Per comprendere il potere di questo anticlimax, dobbiamo ricordare che solo dall’invenzione della stampa e dalla disponibilità dei libri siamo stati in grado di raccontare cosa accadrà dopo semplicemente girando una pagina. Per molti secoli non ci sono stati libri stampati. La gente conosceva la storia biblica principalmente ascoltandola settimana dopo settimana. Coloro che ascoltavano la storia per la prima volta dovettero aspettare una settimana per scoprire quale sarebbe stato il destino di Josef.

L’interruzione della parashà è quindi una sorta di vita reale equivalente al ritardo che Josef ha vissuto in prigione, che, come inizia dicendoci questa parashà, è durato “due interi anni”. Fu allora che il faraone fece due sogni che nessuno a corte riuscì a interpretare, spingendo il capo coppiere a ricordare l’uomo che aveva incontrato in prigione. Giuseppe fu portato dal Faraone, e in poche ore si trasformò da zero in eroe: da prigioniero-senza-speranza a viceré del più grande impero del mondo antico.

Perché questa straordinaria catena di eventi? Ci sta dicendo qualcosa di importante, ma cosa? Sicuramente questo: Dio risponde alle nostre preghiere, ma spesso non quando abbiamo pensato o come abbiamo pensato. Josef cercò di uscire di prigione, e uscì di prigione. Ma non subito, e non perché il coppiere mantenne la promessa.

La storia ci sta dicendo qualcosa di fondamentale sulla relazione tra i nostri sogni e le nostre realizzazioni. Giuseppe era il grande sognatore della Torà, e i suoi sogni per la maggior parte si avverarono. Ma non in un modo che lui o chiunque altro avrebbe potuto prevedere. Al termine della precedente parashà – con Giuseppe ancora in carcere – sembrava che quei sogni si fossero conclusi con un ignominioso fallimento. Bisogna aspettare una settimana, come ha dovuto aspettare due anni, prima di scoprire che non era così.

Non c’è successo senza sforzo. Questo è il primo principio. Dio salvò Noè dal diluvio, ma prima Noè dovette costruire l’Arca. Dio promise ad Abramo la terra, ma prima dovette acquistare la grotta di Machpelà in cui seppellire Sara. Dio ha promesso agli israeliti la terra, ma hanno dovuto combattere delle battaglie. Josef divenne un leader, come sognava. Ma prima doveva affinare le sue capacità pratiche e amministrative, prima in casa di Potifar, poi in prigione. Anche quando Dio ci assicura che qualcosa accadrà, non accadrà senza il nostro sforzo. Una promessa divina non sostituisce la responsabilità umana. Al contrario, è una chiamata alla consapevolezza.

Ma lo sforzo da solo non basta. Abbiamo bisogno di siyata diShemaya, “l’aiuto del Cielo”. Abbiamo bisogno dell’umiltà per riconoscere che dipendiamo da forze che non sono sotto il nostro controllo. Nessuno nella Genesi ha invocato Dio più spesso di Giuseppe. Come dice Rashi, “il nome di Dio era costantemente nella sua bocca”. Attribuiva a Dio ciascuno dei suoi successi. Ha riconosciuto che senza Dio non avrebbe potuto fare quello che ha fatto. Da quell’umiltà è nata la pazienza.

Coloro che hanno realizzato grandi cose hanno spesso avuto questa insolita combinazione di caratteristiche. Da un lato lavorano sodo. Lavorano, si esercitano, si sforzano. Dall’altro, sanno che non sarà solo la loro mano a scrivere la sceneggiatura. Non sono solo i nostri sforzi a decidere il risultato. Quindi preghiamo e Dio risponde alle nostre preghiere, ma non sempre quando o come ci aspettiamo. (E, naturalmente, a volte la risposta è “No”).

Il Talmud (Niddah 70b) lo dice semplicemente. Chiede: cosa dovresti fare per diventare ricco? Risponde: lavora sodo e comportati onestamente. Ma, dice il Talmud, molti ci hanno provato e non sono diventati ricchi. Ritorna la risposta: devi pregare Dio da cui proviene ogni ricchezza. In tal caso, chiede il Talmud, perché lavorare sodo? Perché, risponde il Talmud, l’uno senza l’altro è insufficiente. Abbiamo bisogno di entrambi: lo sforzo umano e il favore divino. Dobbiamo essere, in un certo senso, pazienti e impazienti: impazienti con noi stessi, ma pazienti nell’aspettare che Dio benedica i nostri sforzi.

Il ritardo di una settimana tra il tentativo fallito di Josef di uscire di prigione e il suo eventuale successo è lì per insegnarci questo delicato equilibrio. Se lavoriamo abbastanza duramente, Dio ci concede il successo, non quando lo vogliamo, ma piuttosto quando è il momento giusto.

 

Di Rav Jonathan Sacks

Shabat Jerushalaim 16.05-17.20
Shabat Tel Aviv 16.23-17.21
Shabat Roma 16.25-17.29
Shabat Milano 16.27-17.34

 

BOULLOGNE, Louis the Younger, 1733