Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Non è un caso che la parashà Bo, nella parte che racconta delle ultime piaghe e dell’Esodo, si sofferma per tre volte al tema dei bambini e al dovere dei genitori di educarli.
Come ebrei crediamo che per difendere un Paese sia necessario un esercito, ma per difendere una civiltà è necessaria l’educazione. La libertà si perde quando viene data per scontata. Se i genitori non trasmettono alla generazione successiva i loro ricordi e i loro ideali – la storia di come hanno conquistato la libertà e delle battaglie che hanno dovuto combattere lungo il cammino – il lungo viaggio vacilla e perderanno la strada.
Ciò che è affascinante, tuttavia, è il modo in cui la Torà sottolinea il fatto che i bambini devono porre domande. Due dei tre passaggi della nostra parashà parlano di questo:
E quando i vostri figli vi chiederanno: “Che cosa significa per voi questa cerimonia?”, dite loro: “È il sacrificio pasquale al Signore, che passò sopra le case degli Israeliti in Egitto e le risparmiò quando colpì gli Egiziani”. (Esodo 12:26-27)
Nei giorni a venire, quando vostro figlio vi chiederà: “Che cosa significa questo?”, ditegli: “Con mano potente il Signore ci ha fatto uscire dall’Egitto, dalla terra della schiavitù”. (Esodo 13:14)
C’è un altro passo più avanti nella Torà che parla anch’esso di una domanda posta da un bambino: In futuro, quando tuo figlio ti chiederà: “Qual è il significato delle clausole, dei decreti e delle leggi che il Signore nostro Dio ti ha comandato?”, digli: “Eravamo schiavi del faraone in Egitto, ma il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente”. (Deuteronomio 6:20-21)
L’altro passo della parashà di oggi, l’unico che non menziona una domanda, è: In quel giorno dirai a tuo figlio: “Faccio questo per quello che il Signore ha fatto per me quando sono uscito dall’Egitto”. (Esodo 13:8)
Questi quattro passaggi sono diventati famosi perché compaiono nella Haggadah di Pesach. Sono i quattro bambini: uno saggio, uno malvagio o ribelle, uno semplice e “uno che non sa chiedere”. Leggendoli insieme, i Saggi sono giunti alla conclusione che i bambini devono fare domande, la narrazione di Pesach deve essere costruita in risposta e iniziare con le domande poste da un bambino, è dovere di un genitore incoraggiare i propri figli a fare domande e il bambino che non sa ancora chiedere deve essere educato a farlo.
Non c’è nulla di naturale in tutto questo. Al contrario, va drammaticamente contro il senso della storia. Nella maggior parte delle culture tradizionali il compito di un genitore o di un insegnante è quello di istruire, guidare o imporre. Il compito del bambino è quello di obbedire. “I bambini dovrebbero essere visti, non ascoltati”, recita un vecchio proverbio inglese. “Figlioli, siate obbedienti ai vostri genitori in tutto, perché questo è ben gradito al Signore”, dice un famoso testo cristiano. Socrate, che ha trascorso la sua vita insegnando alle persone a fare domande, è stato condannato dai cittadini di Atene per aver corrotto i giovani. Nell’ebraismo accade il contrario. È un dovere religioso insegnare ai nostri figli a fare domande. È così che crescono.
L’ebraismo è il fenomeno più raro: una fede basata sul porre domande, a volte profonde e difficili, che sembrano scuotere le fondamenta stesse della fede. “Il Giudice di tutta la terra non farà giustizia?” chiese Abramo. “Perché, Signore, perché hai portato guai a questo popolo?”, chiese Mosè. “Perché la via dei malvagi prospera? Perché tutti gli infedeli vivono a loro agio?”, chiese Geremia. Il libro di Giobbe è in gran parte costruito con domande, e la risposta di Dio consiste in quattro capitoli di domande ancora più profonde: “Dov’eri quando ho posto le fondamenta della terra? … Puoi prendere il Leviatano con un amo? … Farà un accordo con te e ti permetterà di prenderlo come tuo schiavo per tutta la vita?”.
Nella yeshivà, il massimo riconoscimento è fare una buona domanda: Du fregst a gutte kashe. Il rabbino Abraham Twersky (1930-2021) uno psichiatra profondamente religioso, racconta che quando era giovane, il suo insegnante si divertiva a sfidare le sue argomentazioni. Nel suo inglese stentato, diceva: “Hai ragione! Hai ragione al 100 per cento! Ora ti faccio vedere dove sbagli”.
A Isadore Rabi (1898-1988) vincitore di un premio Nobel per la fisica, fu chiesto perché fosse diventato uno scienziato. Rispose: “Mia madre mi ha fatto diventare uno scienziato senza saperlo. Ogni altro bambino tornava da scuola e gli veniva chiesto: “Cosa hai imparato oggi?”. Ma mia madre mi chiedeva: “Izzy, hai fatto una buona domanda oggi?”. Questo ha fatto la differenza. Fare buone domande mi ha reso uno scienziato”.
L’ebraismo non è una religione di cieca obbedienza. Infatti, sorprendentemente, in una religione di 613 mitzvot, non esiste una parola ebraica che significhi “obbedire”. Quando nel XIX secolo l’ebraico è stato recuperato come lingua viva e c’era bisogno di un verbo che significasse “obbedire”, è stato necessario prenderlo in prestito dall’aramaico: le-tsayet. Invece di una parola che significa “obbedire”, la Torà usa il verbo shema, intraducibile in inglese perché significa ascoltare, sentire, capire, interiorizzare e rispondere. Nella struttura stessa della coscienza ebraica è scritta l’idea che il nostro dovere più alto è cercare di capire la volontà di Dio, non solo obbedire ciecamente.
Il verso di Tennyson, “Theirs not to reason why, theirs but to do or die” (Non spetta a loro ragionare sul perché, spetta a loro solo agire o morire) è quanto di più lontano ci possa essere dalla mentalità ebraica. Perché? Perché crediamo che l’intelligenza sia il più grande dono di Dio all’umanità. Rashi interpreta la frase secondo cui Dio ha fatto l’uomo “a Sua immagine e somiglianza” nel senso che Dio ci ha dato la capacità di “comprendere e discernere”. La prima delle nostre richieste nell’Amidà feriale è “conoscenza, comprensione e discernimento”. Una delle istituzioni più audaci dei rabbini è stata quella di coniare una benedizione da pronunciare quando si vede un grande studioso non ebreo. Non solo vedevano la saggezza in culture diverse dalla loro, ma ringraziavano Dio per questo. Quanto questo è lontano dalla ristrettezza mentale che ha così spesso sminuito e sminuisce le religioni, passate e presenti.
Lo storico Paul Johnson (1928-2023) scrisse che l’ebraismo rabbinico era “un’antica ed efficiente macchina sociale per la produzione di intellettuali”. Molto di questo aveva, e ha tuttora, a che fare con la priorità assoluta che gli ebrei hanno sempre dato all’istruzione, alle scuole, al Bet Midrash, allo studio religioso come atto persino superiore alla preghiera, all’apprendimento come impegno per tutta la vita e all’insegnamento come la più alta vocazione della vita religiosa.
Ma molto ha a che fare anche con il modo in cui si studia e si insegna ai nostri figli. La Torà lo indica nel momento più forte e toccante della storia ebraica: proprio quando gli israeliti stanno per lasciare l’Egitto e iniziare la loro vita come popolo libero sotto la sovranità di Dio. Trasmettete il ricordo di questo momento ai vostri figli, dice Mosè. Ma non fatelo in modo autoritario. Incoraggiate i vostri figli a chiedere, domandare, sondare, indagare, analizzare, esplorare. Libertà significa libertà della mente, non solo del corpo. Chi è sicuro della propria fede non deve temere alcuna domanda. Solo chi non ha fiducia, chi ha dubbi segreti e repressi, ha paura.
L’unica cosa essenziale, tuttavia, è sapere e insegnare ai nostri figli che non tutte le domande hanno una risposta che possiamo comprendere immediatamente. Ci sono idee che comprenderemo appieno solo con l’età e l’esperienza, altre che richiedono una grande preparazione intellettuale, altre ancora che potrebbero essere al di là della nostra comprensione collettiva in questa fase della ricerca umana. Darwin non sapeva cosa fosse un gene. Persino il grande Newton, fondatore della scienza moderna, si rese conto di quanto poco avesse capito, e lo disse in modo splendido: “Non so cosa possa apparire al mondo, ma a me stesso sembra di essere stato solo un ragazzo che giocava sulla riva del mare e si divertiva a trovare di tanto in tanto un sassolino più liscio o una conchiglia più bella del solito, mentre il grande oceano della verità giaceva tutto inesplorato davanti a me”.
Insegnando ai suoi figli a chiedere e a continuare a chiedere, l’ebraismo onora quello che Maimonide chiamava “intelletto attivo” e lo considerava un dono di Dio. Nessuna fede ha onorato di più l’intelligenza umana.
Redazione Rabbi Jonathan Sacks zzl
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