Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Per la prima volta dalla loro partenza dall’Egitto, gli israeliti fanno qualcosa insieme. Cantano.
“Allora Mosè e i figli d’Israele intonarono questo canto al Signore”. (Esodo 15:1)
Rashi, spiegando l’opinione di Rabbi Nehemiah nel Talmud, secondo cui cantarono spontaneamente il canto insieme, dice che lo Spirito Santo si posò su di loro e miracolosamente le stesse parole gli vennero contemporaneamente in mente. In ricordo di quel momento, la tradizione ha chiamato questa settimana Shabbat Shirà. Il sabato del canto.
Qual è il posto del canto nell’ebraismo?
Esiste una connessione interiore tra la musica e lo spirito. Quando il linguaggio aspira al trascendente e l’anima desidera liberarsi dall’attrazione gravitazionale della terra, si modula nel canto. La musica, diceva Arnold Bennett (1867-1931 drammaturgo inglese) è “un linguaggio che solo l’anima comprende, ma che l’anima non può mai tradurre”. Nelle parole di Richter (1932-… pittore tedesco) è “la poesia dell’aria”. Tolstoj l’ha definita “la stenografia delle emozioni”. Goethe disse: “Il culto religioso non può fare a meno della musica. È uno dei mezzi principali per operare sull’uomo con un effetto di meraviglia”.
Le parole sono il linguaggio della mente. La musica è il linguaggio dell’anima. Quindi, quando cerchiamo di esprimere o evocare un’emozione, ci rivolgiamo alla melodia. Deborah (la profetessa) cantò dopo la vittoria di Israele sulle forze di Sisera (Giudici 5). Hannah cantò quando ebbe un figlio (I Samuele. 2). Quando Saul era depresso, Davide suonava per lui e il suo spirito si rinfrancava (1 Samuele 16). Davide stesso era conosciuto come il “dolce cantore d’Israele” (II Samuele 23:1). Eliseo chiamò un arpista a suonare affinché lo spirito profetico potesse riposare su di lui (II Re 3:15).
I Leviti cantavano nel Tempio. Ogni giorno, nell’ebraismo, precediamo le nostre preghiere mattutine con i Pesukei de-Zimra, i “Versetti del canto” con il loro magnifico crescendo, il Salmo 150, in cui strumenti e voce umana si uniscono per cantare le lodi di Dio.
I mistici vanno oltre e parlano del canto dell’universo, quello che Pitagora chiamava “la musica delle sfere”. È questo il significato del Salmo, quando dice: I cieli dichiarano la gloria di Dio, i cieli proclamano l’opera delle sue mani…”. Non c’è discorso, non ci sono parole, dove non si senta la loro voce. La loro musica si diffonde su tutta la terra, le loro parole fino alla fine del mondo. (Salmo 19)
Sotto il silenzio, udibile solo dall’orecchio interno, la creazione canta al suo Creatore.
Così, quando preghiamo, non leggiamo: cantiamo. Quando ci confrontiamo con i testi sacri, non recitiamo: cantiamo. Ogni testo e ogni momento ha, nell’ebraismo, la sua melodia specifica. Ci sono melodie diverse per Shacharit, Mincha e Maariv, le preghiere del mattino, del pomeriggio e della sera. Ci sono melodie e atmosfere diverse per le preghiere dei giorni feriali, dello Shabbat, delle tre feste di pellegrinaggio, Pesach, Shavuot e Succot (che hanno molto in comune dal punto di vista musicale, ma anche melodie distinte per ciascuna di esse), e per i Yamim Noraim, Rosh Hashanà e Yom Kippur.
Ci sono melodie diverse per testi diversi. C’è un tipo di cantillazione per la Torà, un’altra per le Haftarot dei libri profetici e un’altra ancora per i Ketuvim, gli Scritti, in particolare le cinque Meghillot. Esiste un canto particolare per lo studio dei testi della Torà scritta, per lo studio della Mishnah e della Ghemarà. Così, solo dalla musica possiamo capire che tipo di giorno è, e che tipo di testo si sta usando. C’è una mappa delle parole sacre, ed è scritta in melodie e canti.
La musica ha il potere straordinario di evocare emozioni. La preghiera Kol Nidrei con cui inizia lo Yom Kippur non è affatto una preghiera. È un’arida formula legale per l’annullamento dei voti. Non c’è dubbio che sia la sua antica e struggente melodia ad averle conferito la sua presa sull’immaginario ebraico. È difficile ascoltare queste note e non sentirsi alla presenza di Dio nel Giorno del Giudizio, in compagnia di ebrei di tutti i luoghi e di tutti i tempi che implorano il cielo per ottenere il perdono. È il Santo dei Santi dell’anima ebraica. (Lehavdil, Beethoven vi si è avvicinato nelle note iniziali del sesto movimento del Quartetto in do diesis minore opera 131, la sua composizione più sublime e più ricca di significato, superba e spirituale).
Non si può stare seduti a Tisha b’Av leggendo Echà, il Libro delle Lamentazioni, con la sua cantilena unica, e non sentire le lacrime degli ebrei attraverso i secoli, mentre soffrivano per la loro fede e piangevano ricordando ciò che avevano perso, un dolore recente come il giorno in cui il Tempio fu distrutto. Le parole senza musica sono come un corpo senza anima.
Per molti anni ho avuto il privilegio di far parte di una missione canora (insieme al Coro Shabbaton e ai cantanti Rabbi Lionel Rosenfeld e i chazzanim Shimon Craimer e Jonny Turgel). Abbiamo viaggiato in Israele per cantare alle vittime del terrorismo, così come alle persone negli ospedali, nei centri comunitari e nelle cucine. Abbiamo cantato per – e con – i feriti, le persone in lutto, i malati e le persone con il cuore spezzato. Abbiamo ballato con persone in sedia a rotelle. Un ragazzo che era rimasto cieco e aveva perso metà della sua famiglia in un attentato suicida, ha cantato un duetto con il membro più giovane del coro, facendo piangere le infermiere e i suoi compagni di stanza. Questi momenti sono epifanie, che riscattano un frammento di umanità e di speranza dalla crudeltà casuale del destino.
Beethoven scrisse sul manoscritto del terzo movimento del suo Quartetto in La minore le parole Neue Kraft fühlend, “Sentire nuova forza”. Questo è ciò che si percepiva in quelle corsie d’ospedale. Capite cosa intendeva il re Davide quando cantava a Dio le parole: “Hai trasformato il mio dolore in danza; hai tolto il mio sacco e mi hai rivestito di gioia, perché il mio cuore canti a Te e non taccia”. Uniti nel canto, è possibile sentire la forza dello spirito umano che nessun terrore può distruggere.
Nel suo libro Musicophilia, il neurologo e scrittore Oliver Sacks (che non è un parente, ahimè) racconta la toccante storia di Clive Wearing, un eminente musicologo che fu colpito da una devastante infezione cerebrale. Il risultato fu un’amnesia acuta. Non era in grado di ricordare nulla per più di qualche secondo. Come disse sua moglie Deborah, “era come se ogni momento di veglia fosse il primo”.
Incapace di mettere insieme le esperienze, era intrappolato in un presente infinito che non aveva alcun legame con tutto ciò che era accaduto in precedenza. Un giorno sua moglie lo trovò che teneva un cioccolatino in una mano e lo copriva e scopriva ripetutamente con l’altra mano, dicendo ogni volta: “Guarda, è nuovo”. Lei disse: “È lo stesso cioccolato”. “No”, rispose lui, “Guarda. È cambiato”. Non riusciva più a trattenere i ricordi. Aveva perso il suo passato. In un momento di autocoscienza disse di sé: “Non ho sentito nulla, non ho visto nulla, non ho toccato nulla, non ho annusato nulla. È come essere morti”.
Due cose hanno fatto breccia nel suo isolamento. Una era l’amore per la moglie. L’altra era la musica. Poteva ancora cantare, suonare l’organo e dirigere un coro con tutta l’abilità e la verve di un tempo. Cosa c’era nella musica, si chiede Oliver Sacks (1933-2015), che gli permetteva, mentre suonava o dirigeva, di superare l’amnesia? Suggerì che quando “ricordiamo” una melodia, ricordiamo una nota alla volta, ma ogni nota si riferisce all’insieme. Cita il filosofo della musica Victor Zuckerkandl (1896-1965), che ha scritto: “Ascoltare una melodia significa sentire, aver sentito ed essere sul punto di sentire, tutto insieme. Ogni melodia ci dichiara che il passato può essere presente senza essere ricordato, il futuro senza essere previsto”. La musica è una forma di continuità percepita che a volte riesce a rompere le disconnessioni più forti nella nostra esperienza del tempo.
La fede è più simile alla musica che alla scienza. La scienza analizza, la musica integra. E come la musica collega nota a nota, così la fede collega episodio a episodio, vita a vita, età a età in una melodia senza tempo che irrompe nel tempo. Dio è il compositore e il librettista. Ognuno di noi è chiamato a essere voce nel coro, cantori del canto di Dio. La fede ci insegna a sentire la musica sotto il rumore.
La musica è quindi un segnale di trascendenza. Il filosofo e musicista Roger Scruton (1944-2020) scrive che è “un incontro con il soggetto puro, svincolato dal mondo degli oggetti, che si muove in obbedienza alle sole leggi della libertà”. Cita Rilke (scrittore austriaco 1875-1926): Le parole vanno ancora dolcemente verso l’indicibile e la musica, sempre nuova, da pietre palpitanti
costruisce nello spazio inutile la sua casa divina.
La storia dello spirito ebraico è scritta nelle sue canzoni. Le parole non cambiano, ma ogni generazione ha bisogno delle sue melodie.
La nostra generazione ha bisogno di nuovi canti, affinché anche noi possiamo cantare con gioia a Dio come fecero i nostri antenati nel momento della trasfigurazione, quando attraversarono il Mar Rosso ed emersero dall’altra parte, finalmente liberi. Quando l’anima canta, lo spirito si eleva.
Redazione Rabbi Jonathan Sacks zzl
Qui il video di Baale Emunà Roma.