una parashà

Parashà Vaetchannan. Giustizia e amore, i due principi dell’etica ebraica

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò

Sepolto tra i passaggi epici di Vaetchannan – tra cui lo Shema e i Dieci Comandamenti – c’è un breve passaggio con grandi implicazioni per la vita morale nel giudaismo. Eccolo insieme al versetto precedente: “Sii molto attento nell’osservare i precetti del Signore, tuo Dio, e le testimonianze e i suoi statuti che Egli ti ha ordinato. Farai ciò che è retto e buono agli occhi del Signore, affinché te ne provenga del bene, e tu possa entrare e prendere possesso della buona terra che il Signore giurò ai tuoi padri di darti”.(Deuteronomio 6:17-18)

La difficoltà è ovvia. Il versetto precedente fa riferimento a comandamenti, testimonianze e decreti. Questo, a prima vista, è tutto il giudaismo per quanto riguarda la condotta. Che cosa si intende allora con la frase “il retto e il buono”, non è già contenuto nel versetto precedente?

Rashi dice che si riferisce al “compromesso (cioè non insistere rigorosamente sui propri diritti) e all’azione all’interno o al di là delle parole della legge (lifnim mi-shurat ha-din).” La legge, per così dire, fissa una soglia minima: questo dobbiamo farlo. Ma la vita morale aspira a qualcosa di più del semplice fare ciò che dobbiamo. Le persone che più ci impressionano per la loro bontà e rettitudine non sono semplicemente quelle che osservano la legge. I santi e gli eroi della vita morale vanno oltre. Fanno più di quanto gli viene comandato. Fanno il possibile. Questo, secondo Rashi, è ciò che la Torah intende con “il retto e il buono”.

Ramban, pur citando Rashi e concordando con lui, continua dicendo qualcosa di leggermente diverso: “Dapprima Mosè ha detto che dobbiamo osservare i Suoi statuti e le sue testimonianze che ci ha comandato, e ora dice che anche dove non ti ha comandato, pensa anche a fare ciò che è buono e retto ai Suoi occhi, perché Egli ama il bene e il giusto.

Ora, questo è un grande principio, poiché è impossibile menzionare nella Torah tutti gli aspetti della condotta dell’uomo verso i suoi vicini e amici, tutte le sue varie transazioni e le ordinanze di tutte le società e paesi. Ma dal momento che ne ha menzionate molte, come: “Non andrai in giro come un maldicente”, “Non ti vendicherai né porterai rancore”, “Non starai inerte accanto al sangue del tuo prossimo”, “Tu non maledirai i sordi”, “Ti alzerai davanti al capo canuto”, e simili, ha continuato affermando in modo generale che in tutte le cose si dovrebbe fare ciò che è buono e giusto, incluso anche il compromesso e andare oltre la rigorosa esigenza della legge… Così ti devi comportare in ogni ambito, finché non sei degno di essere chiamato “buono e retto”.

Ramban sta andando oltre il punto di Rashi, ovvero che il giusto e il buono si riferiscono a uno standard più alto di quanto la legge richieda rigorosamente. Sembra che Ramban ci stia dicendo che ci sono aspetti della vita morale che non sono affatto presi dal concetto di legge. Questo è ciò che intende dicendo: “È impossibile menzionare nella Torah tutti gli aspetti della condotta dell’uomo verso i suoi vicini e amici”.

La legge riguarda i valori universali, i principi che si applicano in tutti i luoghi e in tutti i tempi: non uccidere. Non rubare. Non mentire. Eppure ci sono caratteristiche importanti della vita morale che non sono affatto universali. Hanno a che fare con circostanze specifiche e il modo in cui rispondiamo ad esse. Che cosa significa essere un buon marito o una buona moglie, un buon genitore, un buon insegnante, un buon amico? Che cosa significa essere un grande leader, seguace o membro di una squadra? Quando è giusto lodare, e quando è opportuno dire: “Avresti potuto fare di meglio”? Ci sono aspetti della vita morale che non possono essere ridotti a regole di condotta, perché ciò che conta non è solo ciò che facciamo, ma il modo in cui lo facciamo: con umiltà o mansuetudine o sensibilità o tatto.

La moralità riguarda le persone e non esistono due persone uguali. Quando Mosè chiese a Dio di nominare il suo successore, iniziò la sua richiesta con le parole: “Signore, Dio dello spirito di ogni carne”. (Numeri 27:16) A questo proposito i rabbini commentarono: ciò che Mosè stava dicendo era che ogni persona è diversa, quindi chiese a Dio di nominare un leader che si relazionasse con ognuno come individuo, sapendo che ciò che è utile a una persona può essere dannoso per un altra. Questa capacità di giudicare la risposta giusta alla persona giusta al momento giusto è una caratteristica non solo della leadership, ma della bontà umana in generale.

Rashi inizia il suo commento in Bereishit con la domanda: Se la Torah è un libro di leggi, perché non inizia con la prima legge data al popolo d’Israele nel suo insieme, che non compare se non fino a Esodo 12? Perché include le narrazioni su Adamo ed Eva, Caino e Abele, i patriarchi e le matriarche e i loro figli? Rashi dà una risposta che non ha nulla a che fare con la moralità – dice che ha a che fare con il diritto del popolo ebraico alla propria terra. Ma il Netziv (R. Naftali Zvi Yehudah Berlin; 1816-1893) scrive che le storie della Genesi sono lì per insegnarci come i patriarchi fossero retti nei loro rapporti, anche con persone che erano estranee e idolatre. Questo, dice, è il motivo per cui la Genesi è chiamata dai Saggi “il libro dei retti”.

La moralità non è solo un insieme di regole, ma anche un codice elaborato di 613 precetti e le loro estensioni rabbiniche. Riguarda il modo in cui rispondiamo alle persone come individui. La storia di Adamo ed Eva nel Giardino dell’Eden ha a che fare, almeno in parte, con ciò che è andato storto nella loro relazione quando l’uomo si è riferito a sua moglie come Ishah, “donna”, in una descrizione generica. Solo quando le diede un nome proprio, Chavah, Eva, si riferì a lei come un individuo nella sua individualità, e solo allora Dio fece “vesti di pelle per Adamo e sua moglie, e li vestì”. (Genesi 3:21)

Anche questa è la differenza tra il Dio di Aristotele e il Dio di Abramo. Aristotele pensava che Dio conoscesse solo i principi universali, non i particolari. Questo è il Dio della scienza, dell’Illuminismo, di Spinoza. Il Dio di Abramo è il Dio che si relaziona con noi nella nostra singolarità, in ciò che ci rende diversi dagli altri e in ciò che ci rende uguali.

Questa è in definitiva la differenza tra i due grandi principi dell’etica giudaica: giustizia e amore. La giustizia è universale. Tratta tutte le persone allo stesso modo, ricche e povere, potenti e impotenti, senza fare distinzioni sulla base del colore o della classe. Ma l’amore è particolare. Un genitore ama i propri figli per ciò che li rende unici. La vita morale è una combinazione di entrambi. Ecco perché non può essere ridotta solo a leggi universali. Questo è ciò che intende la Torah quando parla di “retto e buono” al di là dei comandamenti, degli statuti e delle testimonianze.

Un buon insegnante sa cosa dire a uno studente in difficoltà che, grazie a grandi sforzi, ha fatto meglio del previsto e a uno studente dotato che è arrivato primo della classe, ma che sta ancora ottenendo prestazioni al di sotto del proprio potenziale. Un buon datore di lavoro sa quando lodare e quando sfidare. Tutti abbiamo bisogno di sapere quando insistere sulla giustizia e quando esercitare il perdono. Le persone che hanno avuto un’influenza decisiva sulla nostra vita sono quasi sempre quelle, dalle quali ci sentiamo capite nella nostra singolarità. Non eravamo, per loro, un semplice volto tra la folla. Ecco perché, sebbene la moralità comporti regole universali e non possa esistere senza di esse, implica anche interazioni che non possono essere ridotte a regole.

Il rabbino Israel di Rizhin (1796-1850) una volta chiese a uno studente quante sezioni ci fossero nello Shulchan Aruch. Lo studente rispose: “Quattro”. “Cosa”, ha chiesto il Rizhiner, “non conosci la quinta sezione?” “Ma non c’è una quinta sezione”, rispose lo studente. “C’è”, disse il Rizhiner: tratta sempre una persona come un mensch*”

La quinta sezione del codice di diritto è la condotta che non può essere ridotta a legge. Questo è ciò che serve per fare il retto e il bene.

Di rav Jonathan Sacks zl

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*Mensch (yiddish: מענטש) significa “una persona di integrità e onore”.
Secondo Leo Rosten (1908-1997 umorista americano) un mensch è “qualcuno da ammirare ed emulare, qualcuno dal carattere nobile. La chiave per essere ‘un vero mensch’ non è altro che il carattere, la rettitudine, la dignità, il senso di ciò che è giusto, responsabile, decoroso”. Il termine è usato come un grande complimento, che implica la rarità e il valore delle qualità di quell’individuo.