di Paolo Castellano
Domenica 18 settembre la sala conferenze del Museo della Scienza e della Tecnica di Milano ha ospitato l’intervento dello scrittore Haim Baharier intitolato La parola ebraica come potenziale di alleanza in occasione della giornata europea della cultura ebraica.
Lo scrittore ha iniziato il suo discorso citando un noto filosofo francese Jaques Deridda: “Ho una lingua soltanto e non è la mia”. Baharier ha illustrato ai presenti come per 20 secoli il popolo d’Israele abbia sperimentato questa condizione: «La lingua ebraica prima della fondazione dello Stato veniva letta senza essere capita. Questo perché era avvenuto uno sradicamento e uno spostamento: diaspora infatti nel suo significato etimologico esprime la perdita di un centro. La lingua ebraica dunque veniva utilizzata per il culto e non per la comunicazione. Lashon è la lingua come testimonianza di vita mentre Safà è la lingua usata per comunicare».
Baharier ha introdotto questa distinzione per articolare meglio il proprio discorso sulle lingue dell’accoglienza. Egli ha poi citato un frammento dei Proverbi: «Salomone in Proverbi 15 – se analizziamo solo metà verso – esprime questo concetto: “comunico e mi risulta subito difficile comunicare”. Siamo di fronte ad una lingua di guarigione oppure ad una terapia della lingua . Cosa significa tutto ciò? All’interno del verso c’è un rimando anche all’albero della vita. Secondo il Midrash l’albero allude alla Torah come paradigma di scrittura.
Dopo Salomone, anche Ezechiele ci parla di un albero con un fogliame immenso e questa pianta ha la caratteristica di proteggere e di essere protetta. C’è anche un riferimento ai due lati del fogliame che è stata interpretato sempre dal Midrash come la “perversione” delle traduzioni dall’ebraico al greco, riferendosi probabilmente alla traduzione dei 70. Tale traduzione infatti era da proibire perché il greco era considerato una lingua pervertita ovvero una lingua che non era in grado di dare un insegnamento mentre l’ebraico aveva saputo produrre la Torah.
Una testimonianza è fatta inoltre di dettagli. Il fogliame allora può rappresentare le tavole che si potevano leggere da tutte le parti. Da una parte le Devarim e dall’altra il Logos. Se viene rispettato un valore etico le parole si possono congiungere».
Baharier ha continuato la propria riflessione collegandosi ai fatti d’attualità che vedono come protagonista lo stato d’Israele: «Quando si parla della nostra terra, spesso diciamo che non comunichiamo molto bene. Questo è grave soprattutto vedendo come veniamo trattati – ha poi continuato – all’inizio c’era soltanto la lingua della creazione con i suoi 70 dialetti ma poi l’idioma si è ammalato. Allora i linguaggi sono diventati le prigioni della parola: non c’era più un legame tra l’ebraico della testimonianza (quello della Torah) e della comunicazione. “L’uomo non vive di solo pane ma di tutto ciò che viene dalla parola di Adonai”».
Baharier ha concluso il suo intervento affermando che ogni scrittura ha un’interpretazione e può rappresentare uno strumento terapeutico per costruire e porre delle basi di coesistenza tra comunità differenti. Il linguaggio e più in generale la comunicazione ha l’obiettivo di preservare le ricchezze culturali di tutti quanti.