Hagar, madre per procura. Ma è anche una storia d’amore

di Ester Moscati
Una figura apparentemente marginale nella Torà, Hagar l’egiziana, la serva di Sarah e Avraham, è la protagonista di una vicenda complessa e dolorosa, emblematica e piena di sottotesti, che ha avuto nella storia conseguenze drammatiche che continuano ancora oggi: la lotta tra i discendenti di due fratelli, Ishmael e Yitzchak, arabi e ebrei. Ne ha parlato in una splendida lezione per Kesher, il 16 gennaio, Rav Roberto Della Rocca Hagar: un utero in affitto o un amore ritrovato? (qui sotto il video della lezione).

«Hagar – spiega il Rav – si inserisce nella coppia Avraham e Sarah, i fondatori dell’ebraismo, che rappresentano, nella schiera dei personaggi della Bibbia, il paradigma della generosità e dell’accoglienza, valori della nostra fede. Questa coppia sceglie Dio come Dio dell’universo, di tutta l’umanità. La storia di Hagar (Genesi, cap. 16) in questo contesto ci lascia destabilizzati, angosciati, è un buco nero, un’ombra pesante per il comportamento di Avraham e soprattutto di Sarah nei confronti di Hagar e di Ishmael. È molto difficile da accettare». Tutta la vicenda prende avvio dal fatto che Sarah è sterile ed è infelice per suo marito che desidera moltissimo un figlio. La coppia, unita, solidale, che ha lottato per tutta la vita per il monoteismo, non ha un erede per proseguire il loro progetto di vita, la loro missione.

Così Sarah ha un’idea. Darà un figlio ad Avraham attraverso la sua serva Hagar. Compie un gesto di grande amore verso il marito e gli dice “Per mezzo suo (cioè di Hagar) io ti darò un figlio”. È la prima “gravidanza per procura” della storia, un’anticipazione della pratica (sciagurata?) dell’utero in affitto, una gravidanza surrogata.

Sarah impiega molta capacità di persuasione verso Hagar per convincerla. Hagar è giovane, bella, orgogliosa. Non nasce schiava, è una principessa egiziana, figlia del Re Avimelech che l’aveva donata ad Avraham e Sarah per ammirazione verso la loro grandezza spirituale.

Avraham accetta di congiungersi con Hagar, che rimane incinta. Ma da lì iniziano i problemi. La giovane diventa sfrontata e arrogante nei confronti di Sarah che si offende e si vendica facendola soffrire, opprimendola. Così Hagar, orgogliosa, se ne va. Il testo racconta che un angelo la trova presso una fonte e le ordina di tornare alla casa di Avraham. Hagar torna e partorisce Ishmael.

Quattordici anni dopo, Sarah dà alla luce Yitzchak.

E Sara vide che il figlio di Hagar l’egiziana, che lei aveva generato ad Abramo, “metzchek” che rideva…” (Genesi, 21; 9). «Nelle vicende legate ad Abramo, narrate nella Torà, – spiega Rav Della Rocca – ricorre spesso la risata. Alla notizia che avranno un figlio in età molto avanzata Abramo “ride di gioia” (Gn 17,17) e Sara “ride interiormente per scetticismo” (Gn 18,12), tanto che lo stesso neonato sarà chiamato ironicamente Yitzchak, “riderà” (Gn 21,3). Anche Ismaele, l’altro figlio di Abramo e di Hagar, “ride con scherno” (Gn 21,9), ma nel suo vissuto la risata è sinonimo di degrado se non addirittura di depravazione. Non sempre la stessa azione assume la medesima valenza. Il valore e il messaggio di uno stesso comportamento può cambiare di significato in ragione di attori e di contesti differenti».

Si arriva dunque alla rottura. Sarah vuole che Avraham cacci di casa Hagar e Ishmael ma il Patriarca è molto perplesso, non ha la forza di cacciare Ishmael suo figlio e c’è bisogno di un intervento divino. Dio dice ad Avraham “Tutto quello che ti dice Sarah, tu devi ascoltarlo”. Dio dà ragione a Sarah. Hagar e Ishmael devono essere cacciati. Ma dov’è la moralità di Avraham e Sarah per cui sono famosi,  dove sono i loro valori? «È un episodio sconcertante e doloroso – dice Rav Della Rocca – c’è un padre, ci sono due madri, due figli. Perché Hashem gioca un ruolo determinante in questo finale? Avraham è un gigante della storia ebraica ma è vulnerabile nei confronti di sua moglie». Il “sacrificio” di Isacco sarà poi una riparazione per il dolore che la coppia ha causato. Ma la domanda resta: perché un gesto così crudele verso Hagar e Ishmael? Soprattutto Sarah, dopo aver imposto alla sua serva di congiungersi con Avraham non se la prende solo con Hagar ma anche con Ishmael. Non sarebbe stato bello far vivere insieme i due fratelli? «Studiando la Torà – spiega Rav Della Rocca – non dobbiamo arrogarci il diritto di giudicare, ma cercare di capire che insegnamento trarne. La Torà dice che ‘Hagar si smarrì nel deserto’ si smarrì quando abbandonò Ishmael perché pensava che stesse per morire. Invece di pregare per Ishmael, si allontanò per non vederlo soffrire. Qui vediamo che Hagar torna all’idolatria e dimentica il potere della preghiera nel cambiare il proprio destino; non ha la forza delle Matriarche di pregare per cambiare la sorte di suo figlio». Ma Ishmael non morirà, è un bambino e quindi Dio lo salva perché – così Gli dice un angelo – nel deserto, in punto di morte Ishmael pregò il Signore. È la parashà che si legge a Rosh HaShanà, che è il Giorno del Giudizio: Dio lo giudica in quel momento perché, nonostante tutto quello che poteva aver fatto, o che avrebbe fatto in futuro, in quel momento Ishmael pregava; nel momento del pericolo e del bisogno aveva dimostrato fede e per questo è stato salvato.

Dopo la cacciata, Avraham comunque si preoccupa di Ishmael, continua a chiamarlo “suo figlio”, e Ishmael parteciperà poi alla sepoltura di Avraham pur riconoscendo la supremazia di Yitzchak. E poco prima, nella Torà, nello stesso momento in cui Avraham cerca una moglie per Yitzchak, questi si prodiga per far tornare Hagar nella casa di Avraham, dopo che Sarah è ormai morta. Hagar torna, ma cambia nome in Qeturà, torna nella casa di Avraham, torna da colui che è rimasto comunque l’unico amore della sua vita. Yitzchak va a riprendere Hagar perché capisce quanto dolore Avraham aveva provato nell’allontanare Hagar e il loro figlio dalla sua casa. Il Midrash spiega che il nome Qeturà deriva dalla stessa radice di qetoret, incenso, “che lega insieme diversi elementi”. «Il nuovo nome – conclude Rav Della Rocca – è un chiaro riferimento alla parola “legame”, è il paradigma di colei che si fa carico, nella solitudine e nella sofferenza, dei bisogni dell’altro».

(Giovan Francesco Barbieri detto Guercino: Abramo-ripudia Agar e Ismaele (1657)).