di David Meghnagi
Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo articolo-saggio di David Meghnagi, neo Assessore alla Cultura UCEI, in merito al tema – Lingue e dialetti ebraici -, della GIORNATA EUROPEA DELLA CULTURA EBRAICA 2016, in vista della conferenza stampa di presentazione che sarà il 13 settembre a Milano. Il capoluogo lombardo è stato scelto quest’anno come città-capofila italiana.
“Un canto vuol dire riempire una brocca, anzi, meglio, rompere la brocca.
Romperla in pezzi. Nel linguaggio della Qabbalah potremmo forse chiamarlo:
Vasi infranti. (H. Leivick)
- E’ un anno particolarmente denso di significati per la recente storia dell’ebraismo. A Basilea, Theodor Herzl riunisce il primo congresso del movimento sionista. A est, si riunisce il primo congresso del Bund, la prima organizzazione socialista nell’impero zarista. Nello stesso anno Sigmund Freud elabora la teoria dell’Edipo. Sullo sfondo del lutto per la perdita del padre, e in risposta all’antisemitismo dilagante a Vienna, Freud aderisce al movimento internazionale dei B’nai B’rith.
Dieci anni prima nel 1887 Ludwig Lazar Zamenhof, un ebreo polacco, dava corpo a un utopico progetto di riconciliazione fra le genti, attraverso la creazione di una lingua complessa e allo stesso tempo facile da apprendere. L’anno dopo il padre della rinascita dell’ebraico moderno, Eliezer Ben Yehudah lancia il suo appello al popolo ebraico perché l’ebraico fosse utilizzato come lingua parlata. Non è un caso che la denominazione sia la stessa dell’inno nazionale ebraico, l’Hattikvah (speranza).
La rinascita dell’ebraico, lo sviluppo dello jiddisch erano figli di una stessa vicenda storica, parte di un processo di rinascita e di riscatto dopo secoli di oppressione, che toccava ogni aspetto dell’esistenza.
Se lo jiddish è il gergo materno di undici milioni d’ebrei, da cui ha preso origine una corposa letteratura e poesia moderne, l’ebraico è la loro radice più antica, il nucleo attorno a cui è stata conservata e sviluppata l’esistenza religiosa attorno alla sinagoga nel corso dei secoli.
L’ebraico unisce tutti gli ebrei, sotto ogni cielo e in ogni tempo, e tale è stata la sua funzione nella giurisprudenza rabbinica e nelle composizioni poetiche religiose che da un continente all’altro hanno tenuto uniti nel corso dei secoli le diverse famiglie dell’ebraismo.
Per secoli, generazioni di studiosi hanno lottato perché l’ebraico non morisse come lingua e ne hanno arricchito il lessico, con parole e termini che resero possibile, nell’epoca dei Mori, la traduzione d’importanti opere filosofiche e la ricerca poetica per la composizione di opere liturgiche e profane.
Il Morè Nevukhim (La Guida dei perplessi) di Maimonide fu pubblicato prima in arabo, col titolo Dalatat al Hairin. Fu tradotto in ebraico dai Tibbonim. Diversi secoli dopo, Spinoza per conto suo, compone una grammatica ebraica. In seguito una generazione d’illuministi ebrei (i maskilim) inizia secondo prospettive opposte e complementari una poderosa opera di traduzione dei classici del pensiero europeo. Traducendo dall’ebraico nell’Europa occidentale; traducendo in ebraico e in jiddish nei paesi dell’Est Europa, dove la grande maggioranza del popolo ebraico è concentrata, e dove più forte è stato il richiamo nazionale, linguistico e territoriale.
In un contesto, meno tragico, la rinascita dell’ebraico si sarebbe potuta tranquillamente conciliare con la conservazione dello jiddish e forse anche col recupero del ladino, la meravigliosa lingua che gli ebrei sefarditi hanno portato con sé nel loro doloroso esilio per le coste del Mediterraneo e nelle Americhe. Una lingua viva e melodiosa che settant’anni fa si parlava ancora nelle vie di Salonicco, e nelle città dell’Impero ottomano, prima che l’ecatombe nazista cancellasse l’ebraismo sefardita nei Balcani.
Non è stato Shalom ‘Aleichem, uno dei più autorevoli esponenti della rinascita linguistica ebraica a dilettare i suoi lettori scrivendo alo stesso tempo in jiddish e in ebraico? Non è stato Birnbaum, un esponente di primo piano del movimento sionista, a dire di avere una narice per l’ebraico e una per lo jiddish?
Perché mai lo jiddish non avrebbe potuto conservarsi accanto all’ebraico? Se ciò non è accaduto, non è per le divisioni che hanno diviso e lacerato il movimento di emancipazione ebraico. Fu per l’immane tragedia che ha cancellato la quasi totalità dell’ebraismo in Polonia e in Lituania e in molti altri luoghi d’Europa.
Nel breve tempo in cui fu possibile, lo jiddish è stato accanto all’ebraico uno dei motori della rinascita cultura e spirituale. Grazie all’opera di grandi scrittori e poeti, da dialetto che era, nel giro di una generazione lo jiddisch era diventato una grande lingua letteraria. Dal canto suo l’ebraico, che non ha mai smesso di alimentare i sogni e le speranze, uscito dalle mura della sinagoga dov’era stato custodito con amore, è diventato nell’arco di mezzo secolo una lingua ricca che ha dato corpo a una delle più grandi esperienze letterarie di questo secolo.
Il progetto di Eliezer Ben Yehuda, il padre della rinascita linguistica ebraica, non è nato per avere una vita facile. All’interno delle comunità ebraiche dell’Europa orientale, ha dovuto fare i conti con un’opposizione concentrica dei nuclei più assimilazionisti, delle autorità religiose e del movimento bundista. Sul versante esterno ha dovuto fronteggiare l’ostilità dei movimenti rivoluzionari, in particolare dei bolscevichi, ma anche dei menscevichi. Bundisti e sionisti si sono combattuti ferocemente, anche nella scelta linguistica (lo jiddish contro l’ebraico), sino a quando le loro differenze non sono state rese “risibili” da un mondo folle oltre ogni immaginazione.
Divisi su tutto, bolscevichi e menscevichi, erano d’accordo su un punto: le rivendicazioni nazionali ebraiche, in particolare il sionismo, erano l’espressione di una mentalità controrivoluzionaria. In questa logica non c’era posto l’ebraico e quando i bolscevichi conquistarono con la violenza il potere, l’insegnamento dell’ebraico finì per essere messo fuori legge. Negli anni bui dello stalinismo, il solo possesso di una grammatica ebraica, comportava la deportazione in Siberia.
Rispetto alla questione ebraica nemmeno gli austro marxisti agirono diversamente. Pur avendo riconosciuto in linea teorica di principio la necessità di svincolare il problema dell’appartenenza territoriale a quella linguistica e nazionale, quando si erano trovati di fronte al problema ebraico, seguirono la stessa logica.
Lo svincolamento dell’appartenenza nazionale e linguistica da quello territoriale, teorizzato per comporre i conflitti che rischiavano di far implodere l’impero, valeva solo per i popoli che avevano già da qualche altra parte un territorio. Gli ebrei, non possedendo un proprio territorio, erano chiamati ad assimilarsi. Per gli ebrei e solo per loro, valeva l’antico motto: “tutto come singoli, niente come nazione”.
In questa logica, lo jiddish poteva essere momentaneamente tollerato perché era in quella lingua che gli operai ebrei si esprimevano. Il fatto che potesse un giorno svilupparsi, e diventare una lingua nazionale, non era all’interno del movimento rivoluzionario accettato come tale.
I progetti di Eliezer Ben Yehudah (il vero nome era Perlman) e di Ludwik Lazar Zamenhof, il padre dell’esperanto, sono agli antipodi, ma entrambi figli della stessa condizione e del bisogno di trovare una soluzione ai dilemmi della condizione ebraica. Eliezer ben Yehudah ritiene che la rinascita dell’ebraico, sia una condizione imprescindibile del processo di riscatto nazionale e di riappropriazione culturale del passato e di progettazione del futuro. Rinascendo come nazione libera, gli ebrei avrebbero contribuito al rinnovamento del mondo.
Il progetto di Zamenhof – che non era certo un assimilazionista e condivideva le preoccupazioni e l’impegno dei padri fondatori del Risorgimento ebraico-, ha come sfondo utopico la speranza di un superamento dei conflitti fra gli uomini e le persone. “Il luogo della mia nascita e dei miei anni giovanili, scrive Zamenhof in una sua lettera, impresse il loro primo indirizzo a tutte le mie idee future”. A Bialystok, la popolazione “si componeva di quattro elementi diversi: russi, polacchi, tedeschi ed ebrei”, in cui ciascuno parlava la […] sua lingua, avendo con gli altri “rapporti ostili”. “Per strada, nelle case, ad ogni passo”, sottolinea Zamenhof, “tutto mi dava la sensazione che l’umanità non esistesse”. “Esistevano solo i russi, i polacchi, i tedeschi, gli ebrei, ecc. …”. La città di Bialystok, al centro di una regione oppressa che era oggetto di aspre dispute, era per Zamenhof un esempio paradigmatico di dove potesse condurre l’esasperato conflitto linguistico e nazionale. Da qui l’idea di “una lingua neutra” e “sovranazionale” che unisse anziché dividere, che avvicinasse gli uomini anziché rinsaldarli nella loro opposta sordità. “Nessuno, annota Zamenhof, può sentire la necessità di una lingua umanamente neutra e sovranazionale quanto un ebreo, che è obbligato a pregare Dio in una lingua morta da molto tempo, è educato e istruito nella lingua di un popolo che lo emargina, e ha compagni di sventura su tutta la terra, con i quali non può capirsi!”. Il progetto utopico di Zamenhof ha un suo corrispettivo psicologico nella ricerca avviata da Freud sull’inconscio e sui suoi meccanismi. La perdita di senso delle origini e l’assimilazione cui andava incontro un settore dell’ebraismo occidentale, con l’emancipazione, non sono per Freud un annullamento dell’identità (in realtà si trattava di un doloroso e complesso processo di trasformazione che investiva ogni aspetto dell’esistenza). Lo sfaldamento delle forme tradizionali dell’esistenza ebraica, cui assiste partecipandovi, non è annullamento dell’appartenenza, o perdita di senso delle origini. Per Freud vi era una traccia da cui risalire verso qualcosa di antico e prezioso, gelosamente conservato e tuttora operante.
Con Freud il problema dell’ebraismo del padre, che ossessionava larghi settori dell’ebraismo occidentale, si trasforma- senza per questo perdere il suo spessore storico- nel problema generale del rapporto di ogni figlio con il padre e la legge.
Oggetto di sentimenti unheimliche, che gli negano il diritto a esistere, l’ebreo torna come teoria del transfert. Identificato col “demoniaco” e respinto dalla cultura, l’ebreo si prende con Freud una rivincita “come teoria dell’inconscio”. Ridimensionato a favore della saggezza dell’antico Egitto, l’ebraismo ne diventa paradossalmente erede e depositario. A una più attenta lettura, l’intera vicenda della psicoanalisi può apparire come una grande battuta di spirito ebraica, la più riuscita di un ebreo verso la cultura del tempo.
Nelle intenzioni di Zamenhof, la lingua universale non doveva nascere dal nulla. Ed è questo il punto che lo avvicina indirettamente a Ben Yehudah e allo sviluppo storico e concreto dello jiddish.
Come Kafka, anche Zamenhof e Perlman a un certo momento della loro ricerca si sono dovuti scontrare con delle impossibilità. Per Zamenhof si tratta della difficoltà insormontabile rappresentata dall’uso di una lingua inventata, anche se a differenza del volapuk di Schleyer, l’esperanto grazie all’ampio uso del latino, ha maggiori possibilità d’imporsi, come lingua parlata.
Per non creare difficoltà di apprendimento insormontabili per la presenza di radici sconosciute, Zamenhof utilizza la lingua latina, matrice o base di prestiti, secondo i casi, di gran parte delle lingue europee. Nel suo sviluppo storico lo jiddisch innestò all’interno del dialetto tedesco medievale, parole, verbi e morfologie di matrice ebraica e slava. Ne scaturì una lingua unica, per le sue sfumature e ricchezza polisemica.
Perlman, che in seguito prende il nome di Eliezer Ben Yehudah, procede in un’altra direzione. La sua non è la ricerca di un substrato europeo, su cui edificare una lingua comune, per l’Europa e per il mondo. Egli vuol far rinascere l’ebraico come lingua parlata e viva. Lavorando anche diciotto ore al giorno, Ben Yehudah pescò le sue perle nel vasto territorio del Tanakh, della Mishnah, della Ghemarah e della letteratura rabbinica. Quando non è l’ebraico antico a essergli di aiuto, per coniare una parola nuova, Ben Yehudah fa ricorso all’aramaico. Se l’aramaico non basta, si appoggia alla lingua araba. Per non parlare delle lingue europee e dello stesso jiddisch.
L’impresa di Eliezer Ben Yehudah è unica nel suo genere. Le parole e i verbi da lui coniati sono religiosamente appresi e utilizzati nei kibbutz e nei moshav dell’Yshuv. Nel 1888, Ben Yehuda prende una decisione difficile. Da un giorno all’altro con i figli parla solo in ebraico. La ricerca sulla lingua ebraica svolta da un solo uomo sopravanza quella di un’intera generazione di studiosi. Nella cella di un carcere turco, dove fu rinchiuso per due anni per un suo articolo sulla rinascita nazionale ebraica, Perlman lavora al suo progetto per diciotto ore al giorno, dalle sei di mattina alle dodici di notte. In America dove vivrà per un certo pericolo, per dodici, tredici ore al giorno. Dei sedici volumi di cui si compone l’atlante storico della lingua ebraica, terminato solo nel 1959, sei sono suoi. Quando nel 1922, Ben Yehudah muore consumato dallo sforzo immane cui si è sottoposto, l’ebraico parlato è la lingua di una piccola comunità, che tre decenni dopo si farà stato. Nei decenni successivi l’ebraico ha recuperato secoli perduti, dando vita a una letteratura tra le più interessanti.