di Davide Foa
Chi accoglie chi? Una domanda che sentiamo ripetere, di giorno in giorno, e a cui probabilmente manca una risposta corretta; difficile infatti, stabilire quale sia il giusto comportamento da tenere dinnanzi all’esodo di milioni di persone, in fuga dalla propria terra: quanto e come vanno accolti i profughi, rifugiati, migranti che arrivano in Europa?
Di fronte alle palesi difficoltà da parte delle istituzioni politiche nel risolvere la problematica, nel pomeriggio di domenica 11 ottobre sono intervenuti tre rappresentanti delle grandi religioni abramitiche, in occasione della conferenza intitolata “l’accoglienza del nostro tempo: tra obbligo etico e possibilità”, tenutasi all’Hotel Melià di Milano, nella cornice dell’evento “la tenda di Abramo”.
L’imam Pallavicini, il Monsignor Fumagalli e Rav Arbib, coordinati dall’assessore alla cultura Davide Romano, hanno cercato di fornire tre risposte religiose alla questione oggi più che mai prioritaria.
“Accogliere significa disposizione al dialogo”, afferma l’imam Yahia Sergio Yahe Pallavicini; secondo l’imam, nel momento dell’accoglienza si crea un conflitto di ego, poiché l’Io di chi accoglie sente di perdere parte del proprio spazio. Questo conflitto può essere vinto da una prospettiva religiosa, capace di “attribuire ad ognuno una dignità non legata all’Io ma alla disponibilità di accogliere”. La religione, dunque, supera gli egoismi e prescrive, come mostra il caso di Abramo e Sara, di accogliere chiunque chieda ospitalità, senza fare distinzioni di merito o provenienza.
Attenzione però: “questo non significa che si deve accogliere tutti indistintamente”, tiene a precisare Pallavicini, dichiarandosi contrario a un “buonismo indiscriminato”. Non si deve cadere nell’errore di confondere i rifugiati onesti con i criminali, poiché, così facendo, “facciamo un torto a tutti”.
Quale dev’essere allora il ruolo delle autorità religiose? L’imam crede che sia necessaria una collaborazione tra politici e religiosi; anche in questo caso si parla di dialogo, tramite il quale i religiosi possono sensibilizzare il mondo della politica, a cui spetta in ogni caso il compito di prendere le decisioni.
Pallavicini denuncia inoltre la mancanza di una politica educativa, in Europa e fuori, parallela alle varie e già esistenti azioni militari giuridiche e umanitarie: ciò significa non avere una visione lungimirante del problema.
La parola passa al Monsignor Pier Francesco Fumagalli, docente presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Fumagalli si sofferma sul significato simbolico della tenda di Abramo, luogo di accoglienza senza pari, ricordando e lodando l’iniziativa conclusasi poco tempo prima, ovvero il pasto offerto ai bisognosi, organizzato in collaborazione con i City Angels.
“Abramo esprime la generosità della condivisione” e un singolo pezzo di pane può diventare il “segno messianico per eccellenza”; il pane che si spezza, offerto in segno di ospitalità, è, secondo il relatore, come la nostra vita, che impariamo a condividere con gli altri.
Fumagalli sottolinea poi la necessità di guardare in faccia chi accogliamo, poiché ognuno ha la sua storia e “Cristo è nel volto dell’immigrato.”
Accogliere tutti o solo alcuni? “Innanzitutto devo ammettere una cosa: non ho per niente le idee chiare”, precisa fin da subito il Rabbino capo di Milano, Alfonso Arbib.
“Nella tradizione ebraica si distingue tra il concetto di zedakà e derech eretz”, il secondo fa riferimento al comportamento di un essere umano, a prescindere da ciò che la Torah prescrive. In questo senso, nel caso di una richiesta di aiuto immediata, che si pone difronte ai nostri occhi, se neghiamo il nostro sostegno manchiamo di umanità, senza che sia necessario guardare alle norme ebraiche.
La questione cambia nel momento in cui dinnanzi a noi non si pone un problema urgente ma più generale, come può essere l’organizzazione di un servizio di assistenza: “allora dobbiamo scegliere, stabilire delle scale di priorità”. Mentre un’urgenza non ci da il tempo e la possibilità di scegliere, una problematica più generale, come è la questione dell’immigrazione, ci impone una selezione che per forza di cose farà del male a qualcuno.
Fare zedakà significa dunque occuparsi dagli altri, capire di cosa gli altri hanno bisogno, compito assai difficile principalmente per un motivo: “spesso negli altri riflettiamo noi stessi, quindi anche i nostri bisogni.” Riprendendo il discorso di Pallavicini sull’Io e il suo contrasto, Arbib sostiene che sia difficile uscire da noi stessi.
Nel processo di comprensione del prossimo, mostriamo solitamente due atteggiamenti possibili; c’è chi vede il prossimo sempre in maniera negativa e chi, invece, tende all’idealizzazione. Ma per capire gli altri dobbiamo anzitutto capire noi stessi, “la cosa più difficile: viviamo in una società dove le identità si confondono e non sappiamo più chi siamo.”
Se non capiamo la nostra identità, sarà impossibile avviare qualunque tipo di dialogo o di confronto.