“E sarete dhimmi in Terra d’Arabia”

Ebraismo

di Vittorio Robiati Bendaud

maometto_predica1La conquista dell’oasi ebraica di Khaybar, nel 629, da parte di Muhammad, con la resistenza e la resa degli ebrei dopo un mese e mezzo di assedio, inaugura quello che sarà lo status doloroso della dhimmitudine, la condizione di non musulmano in terra d’Islam: vicende che sono in larga misura l’archetipo della persecuzione antiebraica in seno all’Islàm. Viceversa, alcuni passi delle sure della predicazione di Muhammad risalenti al periodo meccano (della Mecca), hanno rappresentato, invece, le potenzialità di integrazione e di rispettosa convivenza in seno all’Islàm tra ebrei, cristiani e musulmani.
Com’è noto, le sure si dividono in meccane e medinesi, a seconda del periodo in cui furono rivelate (se prima dell’emigrazione di Muhammad da Mecca a Madina -le prime- o successivamente a tale evento -le seconde-). Le sure meccane, solitamente più inclusive e tolleranti, appaiono però, in relazione al rapporto con gli ebrei, per molta giurisprudenza religiosa islamica, “spuntate”, dato che nell’Islam vige la dottrina dell’ “abrogazione” (al-Nasikh wa’l-Mansukh, ossia “dell’abrogante e dell’abrogato”), in virtù della quale rivelazioni successive (quelle di Madina, solitamente più intransigenti ed esclusive), sostituiscono le precedenti. Tale dottrina giuridico-interpretativa vuole conciliare tra loro e risolvere sia le incongruenze di passi diversi del testo coranico sia le eventuali contraddizioni tra Corano e Sunna. In quanto tale, questo processo giuridico-religioso è articolato e complesso, sviluppato da scuole giuridiche diverse, lungo secoli e contesti culturali islamici tra loro differenti, con attitudini e soluzioni esegetiche non univoche.
Facciamo un esempio non riguardante l’ebraismo circa le ingiunzioni coraniche a proposito di guerra e di pace. Secondo la controversa personalità politica e scrittrice somala musulmana Ayaan Hirsi Ali, ad esempio, tali ingiunzioni avrebbero la seguente progressione: l’invito ad essere inizialmente passivi dinanzi all’aggressione (periodo meccano); esortazione, successiva a combattere gli aggressori; indi, l’obbligo di attaccare tutti i non musulmani, aggressori o meno (periodo medinese). Al riguardo, il giurista islamico Ibn Salama (morto nel 1200), contestualmente alla sura 9 al versetto 5 – il “versetto della spada”-, ritenne che esso abrogava circa 124 più pacifici e precedenti versetti del Corano.
Cosa più o meno analoga sarebbe avvenuta, in seno all’Islàm delle origini, anche nell’evolversi delle attitudini circa gli ebrei e l’ebraismo. Fu così che lo status degli ebrei nei Paesi Islamici è rimasto (e rimane) sospeso tra dhimmitudine, integrazione e persecuzione. Quegli ebrei che nei secoli non si convertirono all’Islàm, furono tollerati se paganti un’apposita tassa speciale (come pure i cristiani), la gizya, e se solo accettavano di sottomettersi a una specifica legislazione restrittiva. Muhammad stesso disse: “Combatteteli sinché non pagano la gizya, di propria mano e con umiliazione”. Questo versetto (IX 29), contenente in nuce l’intero status dei dhimmi in terra di Islàm, è oscuro e i commentatori ebbero molte difficoltà a spiegare l’espressione “di propria mano” (‘an yadin) e “con umiliazione” (wa-hum sagirun), sì che la nozione stessa di gizya ebbe interpretazioni diverse, più o meno restrittive e invasive, a seconda dei tempi e dei luoghi.
Il califfo Jafar al-Mutawaqqil (assassinato nel 861) irrigidì notevolmente le misure contro i dhimmi, imponendo, tra le altre cose, specifici diversi colori di vestiario per cristiani ed ebrei. Fu il precursore, per così dire, della “stella gialla”. Tale attitudine si radicò nella Sicilia islamica, venne registrata da Federico II di Svevia e, tramite il suo tutore di gioventù, papa Innocenzo III, ebbe nuova vita in uno dei canoni del Concilio Lateranense IV, diventando così in tutta Europa obbligatoria la discriminazione degli ebrei attraverso capi di vestiario colorati che li differenziassero dal resto della popolazione cristiana.
Sospesi tra persecuzione – raramente sistematica – e tolleranza – spesso difficile -, ecco come alcuni ebrei in terra di Islàm ebbero a vivere in epoca medievale.
Sa‘adyah Gaòn (882-942), di origine egiziana, fu a lungo al vertice dell’accademia talmudica di Sura, nei pressi di Baghdàd, nell’odierno Iraq. Sa‘adyah Gaòn, padre del pensiero religioso filosofico-teologico ebraico, mutuò linguaggio e argomenti dalla teologia islamica coeva, il celebre Kalàm, un sistema teologico-filosofico nato in seno all’Islàm, di ispirazione argomentativo-razionalista. Vi furono così mutakallimun, ossia teologi che si rifacevano alle dottrine del Kalàm, sia islamici sia ebrei, spesso in dialogo tra loro. Sa‘adyah Gaòn fu, inoltre, il primo traduttore della Bibbia in arabo, traduzione-commento conosciuta come Tafsìr, che rappresentò l’ingresso dell’ebraismo in una feconda stagione intellettuale, oltreché in una lingua e in un milieu culturale nuovo. Per comprenderne la rilevanza, come giustamente fa notare Rav Giuseppe Laras, è opportuno pensare al ruolo analogo svolto precedentemente dalle traduzioni greche del testo biblico in seno all’ebraismo ellenistico o, successivamente, alle traduzioni tedesche di Mendelssohn prima e di Martin Buber e Franz Rosenzweig dopo. Si può affermare che Sa‘adyah Gaòn fu il primo di una lunghissima serie, per almeno sette secoli, di rabbini eminenti (compresi Yehudah ha-Levì e Maimonide), che impiegarono la lingua araba (la lingua sacra di un’altra religione), per esprimere concetti, pensieri e riflessioni ebraiche: la cultura religiosa ebraica cioè “parlò” per secoli anche l’arabo, cosa che non va dimenticata. Un fatto estremamente rilevante questo, incancellabile e unico, mai accaduto con nessuna lingua europea (né tantomeno per il latino), eccezion fatta forse, per l’italiano, specie nel periodo rinascimentale, e per il tedesco successivamente alla fine del ‘700.
È ancor più significativo e drammatico quindi che proprio il già citato califfo Jafar al-Mutawaqqil in quegli anni proibisse ai bambini ebrei, in quanto dhimmi, di imparare la lingua araba. All’inizio dell’XI secolo, in Egitto, il califfo al-Hakim bi-Amr Allah (996-1021) sradicò le misure più tolleranti nei confronti degli ebrei e dei cristiani adottate dai suoi predecessori, ordinando la distruzione di tutte le sinagoghe e chiese presenti nell’impero fatimide, inclusa Gerusalemme. Per converso, in molti casi, specie nelle zone in terra di cristianità conquistate via via dall’Islàm, gli ebrei si allearono con i musulmani, accolti come liberatori, per via delle misure antigiudaiche che subivano nei territori cristiani, specie bizantini.

La comunità ebraica di Cordova nel secolo X fu governata dal diplomatico e letterato ebreo Hasdai Ibn Shaprut -medico personale del Califfo ‘Abd ar-Rahman III della dinastia Umayyade-, personalità eminente e stimata sia dai musulmani sia dagli ebrei. ‘Abd ar-Rahman III onorò in vario modo Ibn Shaprut, delegandogli incarichi di grande responsabilità, come, ad esempio, l’amministrazione della tassazione delle navi provenienti da tutti i porti mediterranei. Parimenti il Califfo riconobbe a Ibn Shaprut l’autorità di risolvere le dispute interne della comunità ebraica e gli concesse di difendere fattivamente la comunità ebraica dai propri nemici, ivi inclusi gli eventuali musulmani. Ibn Shaprut raggiunse un’autorevolezza tale da poter indirizzare una lettera ufficiale all’imperatore bizantino Costantino VII, chiedendogli di garantire maggiori libertà agli ebrei che dimoravano oppressi e derelitti nei territori imperiali d’Oriente. Non è dunque un caso che gli ebrei dell’epoca fossero soliti chiamarlo con il titolo di Nassì, principe. Mediatore nel conflitto tra i regni di Leon e di Navarra nella veste di capo dei diplomatici del Califfo, Ibn Shaprut collaborò con i suoi colleghi medici musulmani e con il monaco bizantino Nicola per la traduzione dal greco e dal latino di antichi trattati di botanica e di medicina.

Un rabbino della Navarra, Beniamìn di Tudela (1130-1173), nel suo resoconto di uno straordinario itinerario di viaggio da Occidente a Oriente in visita per centinaia di comunità ebraiche dell’epoca, inclusa l’Italia e il suo meridione, giunse a Baghdàd. Ogni giovedì, come egli annota, l’esilarca, la locale autorità ebraica, si recava a omaggiare il Califfo. Scrive Beniamìn: “L’esilarca era accompagnato da cavalieri, ebrei e non ebrei, che lo scortavano e che, al suo procedere, proclamavano per le strade: ‘fate largo al nostro signore l’esilarca, il figlio di Davìd, come gli conviene’. Egli montava su un destriero, vestito di broccato ricamato di argenti, con un ampio turbante sul suo capo. Su uno dei suoi vestiti era adagiato un collare recante il sigillo di Muhammad. Egli poi appariva dinanzi al Califfo, baciando la sua mano; il Califfo si alzava e lo faceva sedere su un trono apposito preparato per lui. Tutti i principi musulmani della corte erano comandati di alzarsi e di salutare con deferenza l’Esilarca”. La straordinaria integrazione degli ebrei di Baghdàd nella società araba-islamica locale fu per certi versi un unicum straordinario. E la Torah laggiù, rifiorì. Oggi, dopo millenni, non ci sono ebrei a Baghdàd, sono dovuti fuggire. Paradossalmente, la città, fondata dal Califfo abbaside Abu Jafar al-Mansur, nel 762, vide impiegati proprio per la sua edificazione, insieme, fianco a fianco, ebrei e musulmani.

Non andò così bene per Mosè Maimonide, il Rambàm, ultimo esponente del “periodo aureo andaluso” -come molti erroneamente definiscono quell’epoca-: passò buona parte della sua vita a fuggire dalla persecuzione contro ebrei e dhimmi, giungendo infine, dopo molte tribolazioni, alla corte del visir dell’Egitto, che governava la regione per conto di Saladino.
Ben dopo la prima Crociata (indetta nel 1096 da papa Urbano II) e le sue stragi di ebrei da parte dei crociati sia in Europa sia in Oriente, Maimonide scriveva, in relazione all’Islàm e ai musulmani, nella sua Epistola allo Yemen: “Nessuna altra nazione ha nociuto così tanto a Israele. Nessuno come loro ci ha eliminati, sradicati e umiliati. Nessuno è stato capace di ridurci così male al pari di costoro.” Il giudizio maimonideo sull’Islam inevitabilmente risentì delle persecuzioni da lui personalmente sofferte a Cordova, in Marocco e in Israele, come pure delle notizie nefaste provenienti da varie comunità ebraiche. Paradossalmente, però, Maimonide, nelle Hilkhoth Melakhìm, ossia in un testo di normativa, ritiene che l’Islàm, al pari del Cristianesimo, svolga, assieme a Israele, un ruolo messianico (ossia positivo e necessario), sradicando l’idolatria dalle genti e avvicinandole al monoteismo e al suo alto contenuto etico. È tuttavia rilevante che Maimonide, in un suo celebre responso, permetta agli ebrei di studiare Torah insieme ai cristiani, atto sommo nella pratica religiosa dell’ebraismo. Perché con loro e non con i musulmani? Perché i cristiani, al pari degli ebrei, ritengono che la Torah sia min-ha-shamaim, ossia rivelata dai cieli e di origine divina. Per i musulmani questo non vale affatto, dato che nel Corano si afferma che gli ebrei avrebbero alterato la lettera della Torà, corrompendola. Tale “corruzione”, secondo alcuni interpreti musulmani, avvenne per deliberata volontà degli ebrei; secondo altri perché gli ebrei avrebbero errato nella trasmissione autentica del testo; secondo altri ancora, per entrambe le ragioni. Ciononostante, infine, Maimonide riconobbe all’Islàm di essere un monoteismo e, in quanto tale, una fede che afferma l’unità e l’unicità di Dio (Tawhìd), al pari dell’ebraismo (Yechidùth HaShem).