Se lo humour e la parola salvano il mondo

Spettacolo

Il Diluvio, la costruzione dell’Arca, Noè che raduna i suoi tre figli, Sem, Cam e Iafet, le coppie di animali che salgono sul legno, la risposta all’Altissimo che decide di distruggere gli uomini a causa della loro efferata violenza. E poi l’ebbrezza del patriarca che, piantata la vite sulla terra finalmente asciutta, ne beve il nettare per gettare l’oblio sull’ecatombe degli uomini. E infine l’incesto e l’omosessualità del figlio Cam, il sorgere malinconico di una nuova alba sul destino dell’umanità.
È la storia di Chisimb’arca, testo e prima prova di regia del filosofo e pensatore Chaim Bacharier, una pièce teatrale che sarà in scena fino al 20 settembre al Teatro Franco Parenti (Sala Anima).

Mai la storia del Diluvio, di Noè e dell’Arca ci è stata proposta con tale forza di modernità, con tale potere di risonanza sul possibile futuro destino del pianeta. La pièce infatti, non solo intercetta le nostre inquietudini di fronte al disastro ecologico verso cui la Terra e i suoi abitanti, stanno correndo; non solo si interroga su un equilibrio naturale che abbiamo allegramente mandato a farsi benedire in nome di un forsennato disegno di sfruttamento delle risorse; non solo si sofferma su un universo che affonda come il Titanic mentre noi, come la celebre orchestrina, continuiamo a suonare ignari e imperterriti. Giocando con le nostre inquietudini, Bacharier interroga il testo biblico, pone la questione della grandezza della figura di Noè (era davvero un Giusto oppure no?); il tutto ignorando le ansie millenaristiche da fine del mondo, ultimamente molto alla moda, che agitano sotto il naso la data di scadenza del nostro pianeta, fissato al 2012.

Si può raccontare la storia di Noè con humour? Sì, si può. E anche con leggerezza –in fondo stiamo parlando della distruzione dell’umanità-, e senza eccedere in catastrofismi ad effetto. In fondo il genere umano, alla fine, non si riscatta? Per Bacharier infatti il tema di Noè è l’occasione per riflettere su qualcosa che gli è caro: il mondo salvato dal linguaggio, la parola che partorisce il senso profondo del nostro vivere. In questo aiutato da un bravissimo Eugenio de’ Giorgi, sorprendente e eclettico attore che in un monologo di un’ora e un quarto, interpreta tutti i soggetti della storia, Noè, la moglie, i figli Sem, Cam e Iafet.

Bacharier, perché scegliere la chiave teatrale per raccontare di nuovo la storia di Noè?
Volevo confrontarmi con la drammaturgia, provare a tradurre la complessità di quella vicenda in testo scenico, in monologo, in racconto orale. Mi piace l’idea che la gente si diverta e insieme rifletta, mi piace poter dire delle cose dense e complesse col linguaggio della piacevolezza e dello spettacolo.
Quando le è venuta l’idea? E perché ha scelto la storia del Diluvio?
Perché mi ha sempre colpito la dualità della parola ebraica “Teva”, che significa “arca” e insieme “parola”. Quando Dio, nella Torà, intima a Noach di entrare nella Teva, gli sta dicendo in verità di entrare nella parola, nel linguaggio, non nella barca. Ho sempre interpretato la storia della perversione dell’umanità come conseguenza della perversione del linguaggio, ossia di quando l’uomo perde la facoltà di dare senso alla vita attraverso la coscienza delle parole.
In fondo non è Noach che porta a casa la pelle ma è l’umanità che si salva tramite Noach. Da allora in poi, l’uomo ha come incarico la ricerca del linguaggio più idoneo per raccontare il dono della vita, di cui è depositario. Non dimentichiamoci che Noach in ebraico significa “grazia” e, letto al contrario, significa “serenità”. Noè quindi come portatore di serenità, capace di accogliere la grazia divina.

Questa è la sua prima prova da regista. Si è divertito?
Un mondo. E lo devo al talento, alla straordinaria versatilità di un attore come Eugenio de’ Giorgi. Inoltre, volevo una scenografia spoglia, ridotta all’osso, che lasciasse spazio all’immaginazione degli spettatori. Volevo che Noach emergesse non solo come figura biblica ma come personaggio universale. Quando Dio lo interpella, Noè non capisce, sembra un po’ scemo: pensa di dover costruire una barca-arca, non immagina di dover cimentarsi con un compito così arduo, quello di rifondare il linguaggio, di entrare nel potere della parola che ha la facoltà di creare il mondo e così di salvare l’uomo, regalandogli la coscienza di sè. Inoltre, ho voluto uscire dal mito, dalla vulgata corrente che racconta la figura di Noè come mero falegname-costruttore di barche e transatlantici. E dimostrare quanto fosse irrilevante la domanda se fosse Noè un Giusto oppure no, uno tzaddik be-dorò, un grande solo limitatamente al suo tempo e per la sua generazione o un Giusto universale, la cui stella poteva attraversare i millenni e continuare a brillare.