I nuovi ebrei – Un secolo di arte in Israele.

Spettacolo

Questo il titolo della mostra inaugurata al Martin Gropius Bau di Berlino e organizzata dall’Israel Museum di Gerusalemme e dal Festspiele berlinese. La manifestazione vuole celebrare i 40 anni di relazioni diplomatiche fra Israele e la Germania.

Quali sono i nuovi ebrei e quali sono i nuovi tedeschi (o altri cittadini del mondo) che visiteranno la mostra? Nuovi perché inaspettati, fuori dagli schemi e stereotipi che ci si è fatti di loro, o nuovi perché tesi al futuro?

L’esposizione è la più importante mostra di arte israeliana mai allestita. Si snoda in 15 sezioni, ciascuna dedicata a un tema, e vuole essere, attraverso un secolo di arte, la rappresentazione della trasformazione degli ebrei della diaspora in israeliani.

Ma la mostra ricopre assai più di un secolo ed è assai più che soltanto arte israeliana.

La prima sezione si intitola significativamente ‘Altneuland’ e inizia dai pogrom in Bielorussia della fine del 19° secolo e dal movimento sionistico in Germania ed Europa orientale, dal titolo significativo ‘Una brocca di lacrime’. Il visitatore viene colpito dal grande murale del polacco Shmuel Hirszenberg , ‘L’ebreo errante’ del 1899, che è il simbolo della fuga e del salto nell’ignoto che dovettero affrontare quegli ‘antichi’ ebrei,
e apre il passo alle due successive sezioni che riguardano l’origine del sionismo.

In questa sezione, ‘In nome dell’Utopia’, vengono descritte con grafici e immagini le grandi ondate migratorie a cavallo dei due secoli: l’angoscia e il messianesimo che pervadeva gli ebrei che lasciavano i loro paesi per compiere il lungo viaggio verso una terra che era quanto di più alieno e remoto dalla loro mentalità, ricordano le parole con cui Amos Oz racconta la storia dei suoi genitori in ‘Storia di amore e di tenebra’: un lungo cammino dal grembo della gotica bellezza praghese al vento caldo del deserto. Lì li attendeva una terra arida, deserta e caldissima.

Nel periodo successivo non si può non notare l’influsso dell’arte socialista nelle immagini di questi uomini e donne – idealisticamente – giovani, belli, sani e pronti a costruire un nuovo luminoso futuro. E’, in questo periodo, predominante l’impronta degli ebrei aschenaziti di origine est-europea che trasposero nella realtà del kibbuz, dei moshav e delle comunità agricole dell’allora Palestina mandataria l’idealismo e i principi socialisti dei rivoluzionari russi del diciannovesimo secolo. Tutto ciò viene illustrato da fotografie di giovani pionieri che dissodano il terreno. Non va dimenticato l’apporto artistico europeo – siamo all’epoca del Bauhaus – di cui si vede traccia nel paesaggio urbano, soprattutto a Tel Aviv.

Il contrasto fra il mondo continentale mitteleuropeo lasciato e la nuova vita nel deserto è icasticamente raffigurato dai quadri di Reuven Rivlin che fece la sua ‘aliah nel 1912.

E se solo una sezione è dedicata alla Shoah e a come è stata introiettata nella cultura israeliana, sono invece imprevedibili le sale dedicate ad altre guerre e all’impatto che ebbero sull’arte israeliana contemporanea: la guerra dei Sei Giorni del 1967, la guerra del Kippur del 1973, la guerra del Libano del 1982, la guerra del Golfo del 1991, la prima e seconda intifada. Non vi è nulla in queste immagini di sentimentale o di autocommiserazione, bensì un desiderio di speranza e una brutale franchezza.

Il linguaggio artistico assume nuovi significati quando si passa alle immagine del ‘muro’, altrimenti detto ‘barriera di sicurezza’, con la foto di una donna palestinese che appare quasi schiacciata dalla gigantesca parete, o il video, sempre di una donna palestinese, col suo piccolo a cui i soldati israeliani impediscono di raggiungere l’ospedale. Anche qui nulla è celato, e alcune immagini sono assolutamente inedite.

Una foto di Adi Ness, che ha già esposto le sue opere alcuni anni fa a Tel Aviv, ci mostra una scena di soldati attorno a un lungo tavolo, l’ultimo giorno prima di far ritorno al fronte. Sono giovani e di bell’aspetto, chiacchierano, mangiano o soltanto ascoltano. E anche se la foto è senza titolo, è chiaro che si ispira al modello dell’’Ultima cena’.

Il ‘pezzo’ più sensazionale della mostra è l’esposizione, per la prima volta in Europa, di una parte dei Rotoli del Mar Morto restaurati, che risalgono a oltre 2000 anni fa. La loro scoperta, nelle Grotte di Qumran, avvenne nel 1947 e costituì un caposaldo importantissimo per l’identità di Israele. Quindi, questa sezione costituisce un nesso ideale fra gli antichi e i moderni ebrei, cruciale per l’immagine di Israele, come dice la curatrice della mostra Doreet LeVitte Harten.

Gli artisti – nel viluppo fra identità, religione e guerra – è come se cercassero la loro via di fuga prolungando all’infinito le aspirazioni sioniste e affrontando modernità e guerra che hanno portato alla de-sionistizzazione del paese.

L’ultima sezione si intitola ‘Alternative’, una sorta di elenco dei desideri per il futuro.

Alla fine del percorso se si guarda attraverso una sottile fessura in uno dei sette pilastri color ruggine riempiti di sabbia rossa del deserto, che troneggiano nel salone, si viene riportati al punto di partenza, a quella lontana immagine dell’’Ebreo errante’. Quanta strada è stata percorsa.