Habrichà: sulle orme dei profughi, verso l’Alyià Beth

Spettacolo

di Sara Pirotta

“Reality isn’t a dirty word”, la realtà non è una parolaccia. La dichiarazione rilasciata dal produttore televisivo israeliano Micha Shagrir al quotidiano Ha’aretz potrebbe ben essere il pay off per la promozione del film HaBrichà (La fuga), da lui prodotto e girato in questi mesi in Europa. Un viaggio dalla Polonia all’Italia per conoscere le strade percorse, negli anni che vanno dal 1943 al 1947, dai 250mila ebrei scampati ai lager e alla guerra. Ma la produzione di Shagrir, che in linguaggio più tecnico si potrebbe definire “docu-fiction”, non è semplicemente un prodotto d’arte e di testimonianza di quegli anni difficili, un pastiche di storia e copione, probabilmente già visto. Il riferimento alla realtà avanzato dal produttore durante l’intervista affonda le radici nella struttura stessa del prodotto cinematografico e ha uno scopo ben più preciso. Shagrir mette in primo piano l’intento educativo e formativo del film, che coinvolge, come attori e testimoni, otto ragazzi israeliani tra i 16 e i 18 anni. Durante le riprese, infatti, gli studenti hanno ripercorso gli itinerari battuti da molti profughi ebrei attraverso mezza Europa per raggiungere l’agognata libertà con l’Aliyah Beth, salpando dai porti italiani su imbarcazioni di fortuna.

Un road movie, quindi, che mette in contatto i giovani attori con un pezzo della loro storia, poco raccontata ma ben viva nella memoria di chi l’ha vissuta e nei luoghi in cui è avvenuta. Ed è un viaggio che vede Milano protagonista, storico punto di ricovero e coordinamento dell’organizzazione clandestina, che ordiva la tela di relazioni e collaborazioni per consentire l’espatrio dei profughi dai porti di Marsiglia, Genova, La Spezia, Trieste, Bari e Taranto. “L’idea di questo film – spiega Marco Cavallarin, docente e storico milanese, producer per la tranche italiana di HaBrichà – è venuta a Micha Shagrir incontrando gli studenti di alcune scuole israeliane. Parlando con loro, il produttore si è reso conto che i ragazzi conoscevano poco di queste vicende europee antecedenti la fondazione dello Stato di Israele”. Da qui la volontà di scritturare un cast di giovani che “vivessero” quel periodo così poco raccontato nelle pagine dei libri di storia, le peripezie affrontate, in alcuni casi, dai loro stessi nonni. Nel gruppo di interpreti, infatti, è presente il nipote di Enzo e Ada Sereni, lui partigiano rientrato in Italia da Israele per partecipare alla Resistenza e ucciso dai nazisti a Dachau nel 1944, lei attivamente impegnata nell’organizzazione clandestina milanese, fra via Cantù, via Unione e la provincia milanese, con Magenta in primo piano. “Protagonisti di questo percorso di memoria non saranno solo ragazzi ebrei – sottolinea Cavallarin -. Fra gli attori ci sono anche studenti cristiani, arabi e figli di nuovi immigrati in Israele, con un intento educativo di largo respiro”.

Attraverso Polonia, Repubblica Ceca e Austria, girando scene e incontrando testimoni, la troupe, diretta dal regista israeliano Meni Elias, ha attraversato a piedi il “Passo degli ebrei”, il Krimml Tauern, alla volta dell’Alto Adige. Da qui (dopo aver letto e meditato su un passo del libro Se non ora, quando? di Primo Levi), ecco poi l’arrivo della troupe a Milano e lo spostamento a Magenta, prima di raggiungere La Spezia, imbarcandosi al porto, proprio come fecero gli esuli. “In via Unione, nello storico civico 5 – prosegue lo studioso – i ragazzi hanno ascoltato la testimonianza di Bruna e Giordano d’Urbino e di Gualtiero Morpurgo che, insieme a Mario Pavia, aveva progettato l’adattamento delle imbarcazioni al trasporto dei profughi”.

Regista e produttori hanno scelto alcuni fatti ed episodi che sono stati reinterpretati dai ragazzi nei luoghi in cui avvennero storicamente, con l’aiuto di un insegnante di teatro, che ha guidato le loro emozioni e gli stimoli emersi da un’esperienza tanto vivida. Il tutto venendo in contatto con le popolazioni locali e i testimoni diretti, che hanno stimolato i giovani attori a calarsi nel proprio ruolo e a comprendere la capillarità, l’estensione e il funzionamento dell’organizzazione clandestina. “Nel Palazzo Erba Odescalchi – racconta Marco Cavallarin -, sono stati ricreati gli ambienti, esterni ed interni, in cui si incontravano i futuri holìm hadashim; il film, infatti, mostrerà come dormivano e mangiavano, ma anche la sinagoga in cui pregavano. Verrà raccontata la vita vera di quel periodo, senza tralasciare alcuni momenti di riflessione collettiva, davanti alla targa posta dal Cdec”.

Il gruppo si è poi spostato a Magenta, che insieme alla sede di via Cantù era uno dei principali punti di coordinamento per l’Aliyah. “I ragazzi sono stati ospitati in un agriturismo nei pressi della villa La Fagiana, uno dei luoghi di massima importanza nella storia della Brichà. Proprio qui Ada Sereni, insieme ad altri organizzatori, discuteva e informava i profughi sulle vie di fuga possibili verso la Palestina”. Secondo lo storico, i luoghi di appoggio per i fuggitivi erano assai numerosi. “In Italia – aggiunge Cavallarin -, sono centinaia i posti in cui l’organizzazione clandestina aveva messo radici, e oggi se ne conoscono solo alcuni, fra cui Tradate, Abbiategrasso, Reggio Emilia, ma anche il Sud, con Barletta e Metaponto, dove campeggiano ancora sui muri scritte e indicazioni in ebraico”. Una storia ancora nascosta, quindi, e un modo diverso di raccontarla e farla conoscere. Che l’obiettivo del road movie realizzato e promosso dai produttori Micha Shagrir e Tal Barda sia soprattutto formativo ed educativo si riconosce anche nella struttura di HaBrichà. Il film è infatti imperniato su due diversi filoni narrativi che scorreranno paralleli di scena in scena. Uno è dedicato alla storia, narrata attraverso i luoghi e l’interpretazione dei ragazzi e della loro guida. L’altro riguarda le storie personali dei singoli interpreti, dal diverso background culturale, politico e geografico.

L’incontro sulle strade d’Europa, nel ricreare un passato e un presente a dir poco incerto, è il denominatore comune che ha unito le diverse esperienze. Un nuovo metodo per avvicinare i giovani al tema della Shoah, attraverso un viaggio che sia apprendimento, ma anche formazione personale.

La realtà prima di tutto, quindi, la realtà dei singoli e quella storica. “Useremo i linguaggi e i metodi della reality television per creare un modo inedito di tramandare la storia del popolo ebraico alle nuove generazioni – ha concluso Shagrir nell’intervista ad Ha’aretz -. In questo modo, i ragazzi non soltanto impareranno e capiranno ciò che è avvenuto allora, ma rifletteranno anche su ciò che sta accadendo e su cosa potrà avvenire in futuro”.