Corpo a corpo

Spettacolo

Corpo a corpo. La rassegna del Teatro Franco Parenti di Milano che si apre in occasione del Giorno della Memoria presenta Yossl Rakover si rivolge a D.o uno spettacolo di Zvi Kolitz tratto da un testo considerato da Emmanuel Lèvinas un “salmo moderno”, ideato a interpretato da Marina Bassani. Un testo in cui il corpo a corpo si svolge direttamente con D.o e che, appena pubblicato, divenne immediatamente un riferimento per tutti gli ebrei, una sorta di preghiera, di testamento spirituale… Le domande che Yossl Rakover, immaginato come ultimo resistente durante l’insurrezione del ghetto di Varsavia, pone a D.o poco prima di morire, sono estreme e inesorabili. Nell’affermare la sua fede in lui e nella sua legge, l’uomo chiede conto a Dio dell’orrore di cui è testimone e vittima. Gli chiede fino a quando nasconderà il volto. Il racconto contiene rabbia e preghiera, fede e lucidità, dolore e serena accettazione di un destino.
“Leggere le parole che Yossl Rakover rivolge all’Eterno accompagnate dal commento che il maestro Emmanuele Lèvinas offre a noi lettori è, a mio parere, una delle esperienze più fondanti per l’ebraismo futuro”. Queste parole sono di Moni Ovadia, uno dei massimi interpreti della cultura e del teatro yiddish contemporanei.

Nell’autunno del 1946 viene pubblicato, su una rivista yiddish di Buenos Aires, un racconto, un piccolo testo: Yossl Rakover si rivolge a D.o, un monologo che dà voce all’ultimo sopravvissuto del ghetto di Varsavia prima della definitiva distruzione da parte dei nazisti. L’autore è un tale Zvi Kolitz, un ebreo lituano, che ha scritto il testo in una sola notte, chiuso in una stanza d’albergo. Kolitz sulla rivista racconta anche l’origine del testo, risalente ad un anonimo manoscritto trovato casualmente nelle rovine del ghetto di Varsavia, dopo la distruzione della città ad opera dei nazisti. Una finzione letteraria riuscita e probabilmente scritta nel destino dell’opera, perché Yossl Rakover diventa una figura che acquista una sua autonomia, una sua vita, distinta da quella del suo stesso autore.

Yossl Rakover si rivolge a D.o colpisce nel segno e diventa un testo quasi di culto, tanto che Emmanuel Levinas lo definirà un salmo moderno, “vero come solo la finzione può esserlo”. Un testo intenso, che rimanda con forza al lettore il dolore per un destino non sempre comprensibile nel suo crudele divenire, ma che è allo stesso tempo una preghiera, supplica sussurrata, accettazione in nome di un amore. Non è il grido rauco di protesta che Giobbe rivolge al D.o d’Israele. “Ma che volete – urla Yossl – avete vuotato il cielo e credete adesso che sotto un cielo vuoto possa abitare un mondo devoto ed onesto? No, D.o ha nascosto il suo volto al mondo, ed in questo modo ha consegnato agli uomini e ai loro istinti selvaggi; ritengo quindi assai naturale che, quando la furia degli istinti domina il mondo, chi rappresenta la santità e la purezza debba essere la prima vittima”.

Come parlare ancora di D.o – si chiede nelle note di regia Marina Bassani – , dopo la morte di D.o? Come parlare di un dramma che non può essere espresso a parole? Sarebbe come guardare in faccia il sole.
L’unica strada è l’esposizione lucida, logica e distaccata di un testimone, che potrebbe essere un passante, oppure un erede depositario della memoria di Yossl, della sua assurda vicenda.
Un passante che ritrova uno scritto, un brandello di memoria, e da questa memoria scaturisce il dramma. Allora c’è la possibilità di un distacco epico, da una materia troppo rovente. Il rotolo di carta, come un messaggio trovato nella bottiglia, ma anche come i rotoli di pelle su cui è incisa la Bibbia, la Torah, è l’ultimo legame di Yossl con il mondo. Il dramma non riguarda il rapporto di un uomo con un uomo, ma riguarda il rapporto dell’uomo con D.o. Questa è la vera lotta. Un serie di domande vengono poste a D.o. D.o deve rispondere. Si tratta di un’altra scommessa: come si può raffigurare D.o? D.o che nasconde il suo volto?
Dunque un monologo che diventa dialogo con l’invisibile. La composta lucidità del protagonista richiama la memoria di eroi senza tempo. Lo sfondo un grande squarcio nel vuoto, un buco nero, che propone l’immagine dell’abisso, dell’interruzione che l’umanità sembra aver subito, per un lungo periodo, come un corto circuito.
Il buio viene illuminato da un debole chiarore che permette di non annegare completamente nell’irrazionalità bestiale.
Il video che precede il monologo richiama alla mente la spensieratezza dell’indifferenza che si consuma durante certe tragedie, così enormi, ma a volte così immerse e celate nella quotidianità, da non venire nemmeno avvertite da molte persone distratte che preferiscono continuare a ballare.

La rassegna prosegue con Kaddish per il bambino non nato di Imre Kertész (premio Nobel per la letteratura 2002), regia di Ruggero Cara e Vincenzo Todesco, interpretato da Ruggero Cara.
Questo monologo è l’adattamento del terzo e ultimo romanzo della trilogia dell’“essere senza destino” di Kertész, nella quale il Premio Nobel 2002 esplora la possibilità di continuare a vivere a dispetto dell’orrore della Storia.
E’ per il bambino che non ha voluto che lo scrittore ungherese pronuncia il kaddish – la preghiera per i morti del culto ebraico. Uscita dal fondo dell’estrema sofferenza, eppure condotta da Ruggero Cara sul filo di un delirante umorismo, questa magnifica orazione funebre afferma l’impossibilità di assumere il dono della vita in un mondo definitivamente traumatizzato.
L’inizio è: “NO! Dissi immediatamente e subito, senza esitare, per così dire istintivamente…”
La fine, attraverso ripetute negazioni, è: “NO! – non potrei mai essere il padre, il destino, il dio di un altro essere”.
Tra le due polarità negative, sulla trama sottile dei dinieghi, si dipana il racconto-confessione del protagonista di “Kaddish”, che è la preghiera ebraica per i morti: la scoperta dell’essere ebreo, l’esperienza del campo di sterminio nazista, la distruzione dell’identità e del sé, la rinuncia alla paternità, il rifiuto d’essere assimilato “a ciò che è, alla vita” come paradossale grazia ricevuta dall’esperienza di Auschwitz, la necessità di esistere pur in assenza di alcuna valida ragione per farlo, l’attesa della fine: “Mio dio! Lasciate che sprofondi – per l’eternità”.
Nel passaggio attraverso il deserto egli è accompagnato dalle tracce, vive ancora nel presente, di una personale Beatrice: la moglie (ex) amata profondamente, e perduta per l’incapacità di abbandonarsi al fluire della vita. È questo il costante ricordo che accompagna il racconto, in tutte le sue articolazioni. Ma la disperazione non entra con toni cupi nella narrazione: è accompagnata da un senso del comico sotterraneo, terribile e ubriacante, affidato alla costruzione della frase più che alla scelta delle parole. Una comicità che discende direttamente dalla resa di fronte alla banale realtà del mondo, dove ciò che appare razionale è il male, mentre è il bene ad essere inspiegabile; e che si manifesta nell’impegno profuso nelle questioni, che vengono sviscerate sotto ogni aspetto e secondo le diverse prospettive, seguendone le divaricazioni sino all’estremo, come un albero da cui si diramano rami dai quali si diramano altri rami ed altri ancora…
La coazione, nascostamente comica, genera l’unica sicurezza possibile: sovrappone una disciplina personale a quella insopportabile della realtà. L’io è tenuto a bada dal fatto di essere osservato, costantemente, senza remissione, senza pausa. La memoria obbliga a ricordare, ma non aiuta al presente. Non serve a risolvere. È un ingranaggio della ripetizione. Il tema fondamentale è: nascita e morte. Tra l’essere scaraventati nel mondo e la fine agognata sta l’incomprensibile mondo dove regnano il male, il dolore, l’angoscia…con qualche piccolo sprazzo di gioia, minata dalla consapevolezza della sua fugacità. Ma senza pose tragiche: il racconto si dipana, in modo piano, tranquillo, e se assume connotazioni comiche per il maniacale bisogno che ha il narratore di accumulare particolari, precisazioni, argomenti, si tratta di una comicità sottile, straniata, quella che fa sentire a disagio subito dopo aver sorriso. Richiama in qualche modo il beckettiano “riso dei risi, il risus purus…, quello che ride – silenzio, prego – di ciò che è infelice”.

Anche se ragioni per l’infelicità nella vita di Kertesz ve ne sono: deportato a 14 anni ad Auschwitz, sopravvisse per miracolo, ritornò a Budapest, trovò lavoro come giornalista e traduttore, e venne inghiottito dal grigiore burocratico del socialismo reale, che lo mise silenziosamente al bando dopo la pubblicazione del suo primo romanzo: Senza destino.
Quando nell’autunno del 2002 venne annunciato che proprio lui era stato prescelto per il premio Nobel per la letteratura, fu un fiorire di domande: “Chi è?”, “Dove si può trovare qualcosa che ha scritto?” In effetti, fino a quell’epoca era stato tradotto solo in Germania e in Svezia.
Nel testo della Accademia Svedese in occasione della consegna del premio Nobel, si legge: “Nei suoi scritti Imre Kertész esplora la possibilità di continuare a vivere in un’era in cui la soggezione degli esseri umani alle forze sociali è diventata man mano completa… Nell’essenza, Imre Kertész è una minoranza composta da un solo individuo. Egli considera la sua parentela con il concetto di ebreo come una definizione inflittagli dal nemico. Ma attraverso le sue conseguenze questa arbitraria categorizzazione ha costituito la sua iniziazione verso la più profonda conoscenza dell’umanità”.
La messinscena di un testo che affonda le radici in simile esperienza tragica di vita corre il rischio della sconvenienza, se non addirittura della oscenità. Questa consapevolezza è una liberazione. La scenografia, le luci, gli interventi registici devono essere subordinati al percorso di verità dell’attore, al corpo dell’attore, che si appropria della lingua, dei pensieri, delle emozioni, delle pulsioni di un narratore che pur nella finzione artistica porta con sé la straziante consapevolezza di un altrove reale e doloroso. Ad emblema e sintesi della visione del mondo del narratore-Kertesz, svetta il giudizio su Auschwitz:
“E smettete finalmente di ripetere, dissi probabilmente, che Auschwitz è il frutto di forze irrazionali, inconcepibili per la ragione, perché il male ha sempre una spiegazione razionale, può darsi che Satana in persona sia irrazionale, ma le sue creature sono degli esseri perfettamente razionali… ciò che è realmente irrazionale e che veramente non trova spiegazione, non è il male, al contrario, è il bene”.

”Mentre preparavo questo discorso – ha dichiarato Imre Kertesz nel settembre 2002 quando ha ricevuto il Nobel, mi è capitata una cosa strana che, in un certo senso, mi ha restituito serenità. Un giorno, ho ricevuto per posta un grande pacco. Mi era stato spedito dal direttore del memorial di Buchenwald… Aveva accluso insieme alle sue cordiali congratulazioni un altro pacchetto, più piccolo di cui precisava il contenuto, nel caso in cui non avessi avuto la forza di affrontarlo. All’interno, c’era una copia del registro giornaliero dei detenuti del 18 febbraio 1945. Nella colonna “Abgange”, cioè perdite, ho appreso la notizia della morte del detenuto numero 64921, Imre Kertész, nato nel 1927, ebreo, operaio. I due dati falsi, cioè la mia data di nascita e la professione, si spiegano col fatto che al momento della registrazione da parte dell’amministrazione del campo di concentramento di Buchenwald, mi ero invecchiato di due anni per non essere messo tra i bambini e avevo finto di essere un operaio invece che un liceale per sembrare più utile.
Sono dunque morto una volta per poter continuare a vivere – e forse sta proprio li la mia vera storia. Stando così le cose, dedico la mia opera nata dalla morte di quel bambino ai milioni di morti e a tutti coloro i quali si ricordano ancora di quei morti. Ma siccome in fondo si tratta di letteratura, di una letteratura che è anche, secondo le motivazioni della vostra Accademia, un atto di testimonianza, sarà forse utile per l’avvenire…. Perchè ho l’impressione, pensando all’effetto traumatico di Auschwitz, di toccare le questioni della vitalità e della creatività umane; e pensando ancora ad Auschwitz, in modo forse paradossale, penso più all’avvenire che al passato”.

R. M.

Nelle immagini: Ruggero Cara interpreta Imre Kertész al Franco Parenti e Marina Bassani impersona Yossl Rakover