Rock, ebraismo, politica: Alberto Camerini si racconta

di Nathan Greppi
Nel corso della sua vita ha affrontato numerosi viaggi, reali e interiori: dal Brasile in cui è nato 70 anni fa (e di cui parla nella canzone Alberto nel suo secondo album, Gelato metropolitano)   a Milano, dove ha frequentato la Scuola Ebraica; da uno stile di vita hippy e sregolato al ritorno alla religione. Alberto Camerini, musicista rock tra i più noti in Italia della sua generazione, ha il genio artistico nel sangue: suo padre era un pittore astrattista, la madre aveva studiato musica in un conservatorio, e il fratello Mario Camerini è un disegnatore. Un uomo che ha avuto indubbiamente una vita intensa e piena di sorprese, che ha raccontato a Bet Magazine.

Sei nato a San Paolo, dove hai vissuto fino agli 11 anni. Che ricordi hai di quel periodo?
Ho passato un’infanzia felice, anche grazie ai miei nonni paterni: loro erano di Trieste, e negli anni ’30 vivevano a Milano. Con l’arrivo delle Leggi Razziali, decisero di lasciare l’Italia, e nel ’39 si trasferirono in Brasile, il primo paese a dare loro un visto, assieme a mio padre e ai suoi fratelli. Mio padre era un pittore astrattista, ma sua madre voleva che studiasse, e così dopo la guerra lo mandò a Parigi, dove conobbe mia madre, con la quale tornò in Brasile. Tornammo in Italia nel ’62, quando mio padre, che lavorava per una multinazionale americana, ricevette un’offerta per andare nella filiale di Milano. Ma mio nonno, sepolto assieme a mia nonna nel cimitero ebraico di San Paolo, è tornato solo una volta in Italia, nel 1964. Dopo non tornò più, il trauma del fascismo era stato troppo forte.

Che ricordi hai della Comunità ebraica, di quando eri piccolo?
Ho ricordi soprattutto della Scuola di Via Sally Mayer: all’epoca non sapevo bene l’italiano, e in questo ero come i bambini che già allora erano dovuti fuggire dall’Egitto. Tra i miei compagni di scuola c’erano Rav Elia Richetti  (il Rav, z”l, è mancato dopo l’intervista, ndr), che a 15 anni era già considerato uno dei ragazzi più intelligenti della scuola, e Ilan Grave, che oggi insegna fisica quantistica negli Stati Uniti, e all’epoca faceva sempre a gara con Richetti per essere il primo della classe. Avevo solo due tipi di amici: quelli ebrei da un lato e quelli comunisti dall’altro.

A che età hai cominciato a fare musica?
Ho iniziato a 14 anni circa; dopo aver fatto le medie alla Scuola Ebraica, feci il liceo classico alle scuole pubbliche. Ho iniziato a fare il musicista a livello professionale nel 1970, nei primi anni di università; cantavo le canzoni di Bob Dylan e dei Rolling Stones, finché nel 1976 uscì il mio primo album, Cenerentola e il pane quotidiano. Uscì con un’etichetta discografica legata all’estrema sinistra, perché all’epoca i giovani erano tutti un po’ hippy. Nonostante nutrissero un odio viscerale per Israele, rispettavano la mia ebraicità, tanto che il mio terzo album, Comici cosmetici del 1978, fu prodotto da Shel Shapiro, cantautore ebreo nato in Inghilterra. Ma il grande successo arrivò nel 1980, quando entrai nell’americana CBS e produssi i miei migliori album, Rock n’Roll Robot e Tanz bambolina.

Com’era essere un cantante ebreo di sinistra negli anni ’70?
Dovevo far finta di niente e non affrontare l’argomento. All’epoca non sapevamo cosa facevano veramente i comunisti, volevamo solo spassarcela.
Ad un certo punto mi resi conto che la sinistra italiana aveva di fatto incorporato i dogmi dei missionari cattolici sostituendo Dio con il PCI. A quel punto me ne sono andato, perché avevo già la mia religione, molto più bella e antica del marxismo.

In una recente intervista a Rolling Stone, hai detto di esserti riavvicinato all’ebraismo nel 2008. Cosa puoi dirci in merito?
In quel periodo mi sono reso conto che mi mancava la mia comunità. Un giorno, mentre ero a Venezia, sono andato nella loro sinagoga, e lì decisi di tornare alla Teshuvà. Tornato a Milano, sono andato alla Sinagoga di Via Eupili dove io e Rav Richetti ci riconoscemmo subito, come se non me ne fossi mai andato via.
Ho iniziato a prendere lezioni da lui e a studiare l’ebraico. In questo periodo ho anche ritrovato, sia in sinagoga che su Facebook, i miei vecchi compagni di classe della Scuola Ebraica, comprese le vecchie fidanzate. Con il Covid ho continuato studiando la Torah a casa, seguendo le lezioni online di Rav Arbib e Rav Somekh. Ho anche comprato diversi libri, tra cui una copia dello Zohar, e altri che in famiglia non leggevamo, di autori yiddish come Martin Buber o i fratelli Singer.

Quali sono i tuoi musicisti ebrei preferiti?
Direi Bob Dylan, Carol King, Shel Shapiro e David Lee Roth dei Van Halen.

Che consiglio dai a giovani aspiranti musicisti?
Studiare la tecnica musicale, e avere molta forza di volontà. Non lasciarsi scoraggiare dalle avversità, bensì essere ambiziosi e determinati.