Faenza contro un’Italia senza memoria

di Fiona Diwan

La celebre foto di Adolf Eichmann con le cuffie al processo a Gerusalemme, e sotto la frase:  “A quale X-Factor partecipò Adolf Eichmann? Anche una domanda così, in un paese dove i concorrenti di L’eredità non sanno chi fosse Hitler, potrebbe finire in un quiz tv”.
E’ un messaggio volutamente provocatorio quello che il regista Roberto Faenza  ha scelto per la pagina di promozione del suo nuovo film Anita B., in uscita nelle sale il 16 gennaio, e che fa esplicitamente riferimento al programma di Raiuno condotto da Carlo Conti, in cui spesso i concorrenti dimostrano di non conoscere gli eventi della Storia e la loro cronologia. (Di recente, infatti, ha fatto scalpore la puntata in cui i concorrenti non sapevano quando Hitler fosse salito al potere in Germania). Come era inevitabile, la provocazione ha suscitato una valanga di reazioni sui social network . “L’ho fatto alla luce dell’ignoranza spaventosa di questo paese che vuole dimenticare tutto, la memoria è un fastidio, il pensiero è un fastidio – dice Roberto Faenza in un’intervista a Repubblica -. Ci sono tanti giovani eccezionali, ma la tendenza è di vivere a 100 all’ora, attaccati a strumenti tecnologici, altrimenti si va in ansia. Mai un momento di meditazione. Non è così in altri Paesi”.
Il film – a cui è dedicato l’articolo di copertina del numero di febbraio del Bollettino e che pubblichiamo in anteprima qui di seguito – è liberamente tratto dal romanzo semiautobiografico Quanta stella c’è in cielo di Edith Bruck, che co-firma la sceneggiatura della trasposizione cinematografica di Roberto Faenza. Il titolo del libro era tratto dal primo verso di una ballata triste del grande poeta ungherese Sandor Petofi, parole che la giovanissima protagonista porta con sé insieme al ricordo lacerante dei campi di sterminio da cui è sopravvissuta. Anita fugge da un orfanotrofio per andare a vivere da una zia, Monika, e accompagnata dal cognato Eli attraversa la Cecoslovacchia. Il giovane uomo è attratto dalla bellezza di Anita e cinicamente, sistematicamente, la insidia. Intorno a loro, una moltitudine umana alla ricerca di una nuova vita. Il film, prodotto da Jean Vigo, Cinema 11 e Rai Cinema, esce in sala il 16 gennaio, distribuito dalla Goods Film.

L’intervista a Roberto Faenza

Un’apparenza severa di modi e di parole. Salvo quando sorride, con lo sguardo che si accende di un’allegra luce maliziosa. Per Roberto Faenza, nato a Torino, classe 1943, regista, sceneggiatore e docente universitario, il destino è qualcosa che si inscrive nella sospesa dolcezza dell’infanzia o, ancora, nella nervosa e seminale inquietudine dell’adolescenza. Destino come una sorta di caduta degli angeli ribelli, angeli intesi come coscienza infelice e critica del proprio tempo, votati a cogliere storture e poesia dell’epoca storica che attraversano. Un po’ come fanno i suoi personaggi o come ha fatto lui stesso. Una storia controcorrente quella di Faenza: prima dissacrante e poi soavissima e delicata, con film impegnati e politici agli esordi di carriera e poi, più di recente, introspettivi, intimistici e psicologici. Un outsider del cinema che oggi vive tra gli Stati Uniti e l’Italia, con una biografia intellettuale scomoda, passato alla storia per aver firmato film di denuncia talmente politicamente scorretti da decretarne addirittura la messa al bando dal mondo cinematografico italiano degli anni Settanta (con film come Escalation, H2S, Forza Italia), fino alla consacrazione, nel 1993, con il David di Donatello, per Jona che visse nella balena, e poi con Sostiene Pereira, Prendimi l’anima e oggi con l’ultimo Anita B., tratto da un romanzo di Edith Bruck (Quanta stella c’è nel cielo, Garzanti), con cui Faenza ritorna sul tema della Shoah. Ben girato e ben recitato (con qualche difetto di sceneggiatura), il film ha per protagonisti attori davvero bravi: il celebre Robert Sheehan – idolo delle ragazze -, Eline Powell e il nostro Moni Ovadia, capace quest’ultimo di esprimere una maturità artisica davvero ragguardevole.

Perché considera Anita B. il suo film più controcorrente?
L’Italia è un Paese senza memoria, perciò ci vuole un certo coraggio a fare un film così, dalla forte carica emotiva e di pensiero: in un Paese in cui trionfano la mentalità X-Factor e dei reality,  in cui l’industria del cinema è sottomessa a logiche solo commerciali, è difficile fare film su temi drammatici e sulla Shoah o film che inducano una riflessione sul passato. Controcorrente perché è un film sul tema della rimozione collettiva, sul bisogno di dimenticare per poter continuare a vivere. Ma anche, nel contempo, sul bisogno di ricordare per sapere chi siamo. E l’Italia non è forse un paese che dimentica le proprie nefandezze e che non ha saputo fare davvero i conti col XX secolo? Il francese Jean Amery diceva che Dio ha dato all’uomo la dimenticanza per proteggerlo e che gli ha messo alle costole due angeli, uno che gli tappa la bocca e le orecchie, e l’altro che gli sussurra senza posa le cose del passato.
Qual è il cuore tematico del film?
Il rapporto tra oblio e memoria, come sia possibile continuare a gioire, amare e sperare ancora dopo l’orrore dei campi, la vita che rinasce dopo la morte. Ricordandoci, come diceva la partigiana Tina Merlin, che il contrario dell’oblio non è la memoria ma la giustizia: dimenticare i morti nei lager è ingiusto, rimuovere e non parlarne più in nome del futuro è uno scempio atroce nei confronti di chi, così, muore per la seconda volta. È un film che affronta una rimozione collettiva, il dopo Shoah, quando nessuno ne volle più sapere del passato e ostinarsi a ricordare sembra quasi un delitto, quasi fosse una colpa l’essere stato nei campi ed essere sopravvissuto. Il fil rouge è proprio il conflitto tra due bisogni, oblio e memoria, e il film accoglie entrambi i bisogni. In fondo, la necessità di rimuovere ha a che fare con un dolore troppo forte, un dolore che va rispettato. Anche nel caso di Anita B., ho voluto affrontare il tema della Shoah con gli occhi di un adolescente, come accadde in Jona che visse nella balena: mi piace la purezza del loro sguardo, la capacità che hanno di essere pelle viva, autentici.
È difficile essere ebreo?
Non so davvero risponderle. I miei genitori mi battezzarono, per proteggermi, nel 1943, in piena guerra e, da piccolo, non me ne parlarono mai. Lo venni a sapere verso i 12-13 anni e non dai miei genitori.
Da chi allora?
Fu a scuola. Andavo dai Gesuiti e poi dai Fratelli delle Scuole Cristiane e mi dissero che Faenza era un nome ebraico. Senza contare poi che andavo in giro per la scuola a dire che Gesù era ebreo, cosa all’epoca inaccettabile e considerata offensiva.  Così il mio insegnate mi mandava via, in corridoio, “Faenza vada fuori dalla classe, per cortesia”, mi diceva, e io me ne uscivo, avvilito.
Ha dei ricordi ebraici?
Mia madre iniziò a parlarmi di cose ebraiche da adulto. Era di Asti, si chiamava Luciana Diena, era religiosa, a suo modo. Ma erano soprattutto i ricordi familiari quelli che mi ha trasmesso, relativi a mio nonno Arturo Beniamino Diena, un autentico genio che inventò un sistema per sbancare i casinò. Divenne immensamente ricco come agente di cambio, fece vivere nell’agio tutti, mantenendo figli, fratelli, 15 famiglie di parenti per quasi 100 anni. Scrisse un libro, L’ebreo consiglia, con cui, rivolgendosi a Churchill e Stalin, dava loro consigli su come gestire al meglio l’assetto politico europeo dell’epoca. Le sue avventure , il suo talento e la sua grandiosa immodestia, hanno riempito di storie la nostra vita.
Che significato ha oggi per lei l’identità ebraica?
Mi ritengo un apolide, senza patria, e non sono particolarmente religioso. Mi piace pensare all’ebraismo come a un pensiero mai dogmatico, aperto a ogni dubbio e discussione in cui nessuno ha mai l’ultima parola, un pensiero innamorato della vita e del futuro. Più che fede, penso all’ebraismo come storia, tradizione, cultura, capace di comprendere in se stesso anche la possibilità dell’ateismo.
Prolifera il negazionismo e il pensiero di chi minimizza la Shoah
Penso che i ragazzi hanno perso la memoria storica e poco sanno di quanto è successo solo pochi anni fa, figuriamoci del passato e delle due guerre mondiali! Quanto ai negazionisti, credo che siano in malafede, ed escludo che credano veramente in quello che dicono. Il loro è opportunismo politico e culturale, un modo per mettersi in mostra, per farsi pubblicità. Certo, fa dei danni innegabili e trova un seguito nelle persone culturalmente più sprovvedute. E costringe tutti noi a vigilare.
Il razzismo rialza la testa: il caso Dieudonné in Francia, la vittoria dei partiti di ultra-destra in Ungheria, Grecia, Olanda…
La storia ci insegna che sempre, nei momenti di crisi economica e sociale, le minoranze sono quelle che pagano il prezzo più alto. Dare la colpa a qualcuno dei propri guai è sempre il modo migliore per consolarsi quando tutto va male.
Qual è il suo rapporto con Israele oggi?
Oggi Israele è un Paese molto interessante, avanzato, fertile, esito di un incrocio straordinario di talenti e di genti diverse. Ho appena presentato il mio film a Gerusalemme, a Yad Vashem, ed è stato toccante. Ma non nascondo di nutrire una forma di ambivalenza: vuole che sia sincero? Quando vado in Israele mi sento metà israeliano, metà palestinese. Detesto il muro, mi ricorda la Germania, anche se ammetto che abbia molto contribuito a proteggere Israele dagli attentati. Molti anni fa ho girato il film L’amante perduto, tratto dal romanzo di A. B. Yehoshua L’amante. Girai per circa un anno e mezzo, tra Tel Aviv e Ramallah, e usai una troupe mista, israeliana e palestinese. Forse i tempi erano prematuri, ma la cosa non piacque e il film, alla fine, non uscì mai in Israele. Ciononostante, in quell’occasione, vissi uno degli eventi più emozionanti della mia vita. Fu alla presentazione di quel film, a Gerusalemme, nella valle di Giosafat o del Kidron. Mi tremavano le gambe: non arrivava nessuno, le autorità, gli ospiti, nessuno, l’ora dell’evento stava passando ed io ero annicchilito. Poi, improvvisamente, dal cielo, dei rumori di motori. Stava arrivando una squadriglia di elicotteri e, dietro, a terra, una fila di auto. Ne discesero i leader palestinesi e israeliani di allora, e ne discese anche Shimon Peres insieme a tutto il suo entourage. Il film fu proiettato e Peres – che amò quella pellicola -, mi strinse la mano dicendomi di tenere duro, di non preoccuparmi delle critiche israeliane, mi disse che a volte solo i visionari e i ciechi possono davvero vedere la realtà.