Miri Mesika: «Quando canto me stessa, tutto il mondo è casa mia»

di David Zebuloni

È la più grande diva della musica israeliana, candidata all’Olivier Awards, l’Oscar del teatro britannico: a Londra ha incantato tutti per la sua voce straordinaria, dall’estensione infinita. «Amo Israele – dice – ma all’età di 45 anni sono finalmente pronta a volare»

All’ultima cerimonia di premiazione degli Olivier Awards, l’Oscar del teatro britannico che si tiene ogni anno al prestigioso Royal Albert Hall di Londra, una cantane israeliana ha catturato l’attenzione di tutti. Candidata al premio di miglior attrice protagonista per lo spettacolo The Band’s Visit, la cantante in questione si è esibita nel pezzo Omar Sharif. La sua voce ha lasciato i presenti senza fiato. Al termine dell’esibizione la platea era in delirio, la stampa in fermento e persino la conduttrice dell’evento, Hannah Waddingham, si è lasciata scappare in modo del tutto spontaneo un “Wow, questa è davvero una delle più belle voci che io abbia mai sentito in vita mia”. Lei è Miri Mesika, la più grande diva della musica israeliana. Senza dubbio, la più versatile. Colei che racchiude in sé oriente e occidente, passato e presente. Un po’ Joni Mitchell e un po’ Umm Kulthum, Miri Mesika riesce a dar vita a un genere musicale nuovo, inedito, sempre diverso, ma sempre credibile e coerente. Una cantante dall’estensione vocale infinita, che fa con la voce ciò che vuole: sale su su su e poi scende giù giù giù, non sbagliando mai una nota, interpretando ogni parola in modo appassionato e appassionante, con le braccia che volteggiano in aria e l’espressione facciale solenne. Una Cleopatra.

Anche i suoi tratti sono inconfondibili, magnetici: il viso squadrato, gli occhi piccoli e scuri, il naso importante, le labbra carnose, i capelli neri corvini, folti e ondulati. Se fosse nata in America, Miri sarebbe oggi una di quelle star irraggiungibili, inaccessibili, inarrivabili, ma è nata a Herzliya e vive con il marito e le due figlie a Kiryat Ono.

Nonostante i modi drammatici da diva, Miri è pur sempre israeliana. Mi accoglie infatti a casa sua, dopo aver rimandato l’intervista più e più volte. «Ti chiedo scusa, è un periodo folle questo, sto incidendo un nuovo disco e lavoro senza sosta» spiega mentre mi prepara il caffè, rovesciandone un po’ sul marmo. Maldestra, esilarante, iperattiva, imprevedibile, Miri non passa certo inosservata. Sono le undici del mattino, lei è vestita in abito da sera, un abito lungo e rosso scarlatto, mentre le figlie si rincorrono per casa battibeccando senza sosta. Poi prepara i pancake (integrali, perché è a dieta, specifica) e si mette a cantare a gran voce, ignorando la mia esistenza, con una naturalezza disarmante.

Invidiabile. Incantevole. Ascoltandola, non mi capacito che aprendo la bocca riesca ad evocare un suono simile. Oriana Fallaci disse una volta a proposito di Barbra Streisand che “non assomiglia a nessuno, è incatalogabile come nessuno e tipi come lei capitano tutt’al più una volta in una generazione”. Ecco, non potrei trovare parole più appropriate per descrivere Miri. Tipi come lei, d’altronde, capitano davvero una volta in una generazione, riscattandoci dalla mediocrità, la banalità, la noia nella quale viviamo.

Miri, quanto è stato difficile per te lasciare i palcoscenici più prestigiosi d’Israele e tornare a essere un’artista sconosciuta per le strade di Londra?
In passato mi avevano già proposto dei contratti all’estero, a Broadway e in Francia, per esempio, ma ero troppo legata al mio paese e alla mia famiglia per lasciare tutto e partire. Ho la famiglia più splendida e avvolgente del mondo, il che è un dono, ma anche un limite. Sentivo di non poter volare oltre i muri di casa. Non solo per un senso di responsabilità, ma anche per un bisogno di protezione e di affetto. Ci sono famiglie in cui ogni figlio vive in un angolo diverso del mondo e ognuno realizza i propri sogni separatamente: da noi non esiste nulla di simile. Da noi, nulla ha senso se non viene fatto insieme.

Ma quando è arrivata la proposta da Londra, hai cambiato improvvisamente idea…
Sì, perché d’un tratto mi sono sentita pronta. All’età di 45 anni ero finalmente pronta a volare. I miei genitori hanno pianto come se stessi per partire e non tornare mai più. Era davvero comico. Più cercavo di spiegar loro che sarei stata via solo per sei mesi, e più loro piangevano disperati. Le mie figlie, invece, hanno capito subito.

E quando sei arrivata a Londra da sola, senza i tuoi genitori, senza le figlie, senza tuo marito, cos’è accaduto?
Accade che rimango travolta dal piacere di essere scoperta. O meglio, riscoperta. Un piacere indescrivibile, che mi mancava moltissimo. In Israele ormai prendono la mia voce un po’ per scontata, a Londra invece erano tutti increduli. Mi guardavano con gli occhi sbarrati e la bocca spalancata. In Israele il mio rapporto con il pubblico è di amore profondo, a Londra invece è un rapporto inebriante di innamoramento puro. Quando nessuno ti conosce, d’altronde, non esistono pregiudizi o agevolazioni, poiché rimani sola con il tuo talento. Se sei brava, piaci, altrimenti te ne torni a casa.

In passato hai detto: “Prima ancora di essere una cantante, prima ancora di essere ebrea, sono israeliana. Non lascerò mai il mio paese”. Ecco, tu sei l’unica cantante in Israele che goda del titolo di Diva. Non ti sei mai sentita un po’ stretta in questo pezzo di terra? Non desideravi conquistare il mondo con la tua voce?
No. Giuro di no. Non mi credi? Non mi credi, lo vedo nei tuoi occhi. Credimi. Ero così felice della mia carriera in Israele che non desideravo altro. Forse, inconsciamente, sapevo anche di non essere artisticamente pronta per questo lancio. Quando sono arrivata a Londra, invece, nulla mi faceva più paura, non avevo alcuna ansia da prestazione, poiché non avevo bisogno di dimostrare niente a nessuno. Ero venuta solamente a raccontare una storia, a trasmettere un messaggio, non a mostrare quanto so cantare bene. Volevo toccare i cuori, non le orecchie. Da ragazza non avevo queste consapevolezze. Vedi, ero troppo impegnata a trovare la nota giusta.

E cosa scopri di Miri, quando non sei più Miri Mesika?

Io sono sempre solo Miri.

Ma a Londra sei solo una delle tante Miri.
Sì, ed è stato meraviglioso. Mi sono sentita di nuovo una ventenne che va a teatro a piedi e scopre le bellezze della città e del proprio mestiere. Poi, appena sentivo delle urla per strada, capivo di essere capitata davanti a un gruppo di turisti israeliani. Ecco che la magia dell’anonimato svaniva.

A Londra hai realizzato il sogno di ogni cantante. Raccontami, com’è esibirsi al Royal Albert Hall?
C’ero stata una volta come spettatrice e non mi era nemmeno passato per l’anticamera del cervello il pensiero di volermi esibire su quel palcoscenico. Non sognavo così in grande. Però la vita è piena di sorprese e in quel luogo ho scoperto una cosa che mi ha destabilizzata.

Che cosa?
Che le dimensioni non contano nulla. Che esibirsi nella Royal Albert Hall o a Zappa Haifa, è esattamente la stessa cosa. Se canti la tua verità, l’emozione è sempre la stessa. Per questo motivo, oggi più che mai, sento che il mondo, tutto il mondo, è casa mia.

Miri, in te l’oriente e l’occidente vivono in perfetta armonia. Musicalmente parlando, puoi fare tutto e fai tutto. Metti insieme la nostalgia del passato, l’esilio, il mondo arabo, quello europeo, con accenni di pop americano attualissimo. Ti domandi mai quale sia la tua vera identità?
Devo confessarti che io non ci capisco niente di musica. Non l’ho mai studiata. Io canto me stessa. Quando mi esibisco in arabo, in ebraico o in inglese, quando mi immergo nel jazz o nel pop, non ho assolutamente idea di cosa io stia facendo. L’unico elemento musicale che lega il tutto sono io, è la mia voce, la mia personalità, la mia identità.

Ma quando sei tutto, non rischi di essere nulla?
Infatti mi reputo un’artista molto limitata.

Tu?
Sì, io. Quando la stampa fa riferimento al mio bel canto, faccio davvero fatica a capirne il motivo. Voglio dire, io non faccio musica, io racconto una storia. La mia voce non è altro che il prisma del mio vissuto e della mia persona. Capisci? La mia voce non mi definisce, è l’impulso di dire qualcosa ciò che mi definisce.

Perché l’identità musicale di un artista israeliano è così complessa?
Perché essere israeliano significa innanzitutto essere mille universi intrecciati tra loro. Ma gli universi non si fanno la guerra. Anzi, al contrario. Si abbracciano. Nella musica avviene tutto in maniera estremamente naturale. I passati, le diaspore, le culture, si incastrano alla perfezione e generano un puzzle colorato, affascinante, commovente.

Credi che sia un vantaggio o uno svantaggio avere tante identità?
Un vantaggio straordinario. Uno stimolo perenne. Quando hai così tante culture da cui attingere, l’ispirazione non può mai finire.

Ma ormai sono vent’anni che fai questo mestiere Miri. Ti hanno già incoronata regina della musica israeliana. Possibile che tu non sappia dire quale sia il tuo stile musicale?
No, davvero, non lo so. Di nuovo non mi credi, lo vedo sempre nei tuoi occhi. Credimi.

Ti credo, ma mi domando se non sia una condanna questa. Non sapere cosa canti, non significa non sapere chi sei? Voglio dire, non ti pesa questa libertà artistica? Non vorresti riuscire a dare un nome alla tua identità?
Certo che vorrei. Ci penso spesso. A volte ascolto la mia stessa musica e ne esco confusa. Non so chi sono. Non so che artista sono. Forse è troppo tardi, forse avrei dovuto pormi più domande all’inizio della mia carriera, definire uno stile musicale preciso ed essere più costante. Forse dovevo essere solo rock, solo etnica, solo pop.

O forse no.
Forse. Mio marito sostiene che la mia poliedricità sia il segreto del mio successo. Io sostengo invece che il fatto di non sapere chi sono mi mantiene sempre curiosa, in perenne ricerca, mai arrivata, e anche un po’ affamata, ma quella forse è la dieta.

Vuoi dirmi che dopo tutti i traguardi raggiunti, senti ancora di essere alla ricerca di te stessa?
Sì, sì, sì. Una ricerca incessante, emozionante, esasperante.

E cosa speri di trovare alla fine di questa ricerca incessante, emozionante, esasperante?
Spero di capire qual è la mia missione in questo mondo. Una missione che passa attraverso la musica, ma non si limita alla musica. Vedi, io credo che la mia voce non sia fine a se stessa. Se così fosse, sarebbe una delusione troppo grande da sopportare. La mia voce è, deve essere, un mezzo. Uno strumento capace di toccare i cuori. Ecco, spero di trovare i cuori alla fine di questa mia ricerca. E con la mia voce spero di poterli toccare, accarezzare, abbracciare tutti.