di Anna Balestrieri
Oltre sessanta artiste e artigiane — ceramiste, modiste, fotografe, illustratrici, designer di oggetti d’uso — compongono un mosaico di talenti che intreccia l’emancipazione femminile e la trasformazione dell’identità ebraica in un’epoca di fermento culturale e di violenza politica. La mostra al Museo ebraico di Berlino resterà aperta fino al 23 novembre.
Al Museo Ebraico di Berlino, la mostra Widerstände. Jüdische Designerinnen der Moderne riporta alla luce un capitolo quasi rimosso dell’arte europea: quello delle donne ebree che, tra gli anni Dieci e Quaranta, ridefinirono il gusto e l’estetica della modernità tedesca, per poi essere travolte dalla persecuzione nazista.
Oltre sessanta artiste e artigiane — ceramiste, modiste, fotografe, illustratrici, designer di oggetti d’uso — compongono un mosaico di talenti che intreccia l’emancipazione femminile e la trasformazione dell’identità ebraica in un’epoca di fermento culturale e di violenza politica.
Negli anni Venti, nel “triangolo della moda” berlinese, le modiste Regina Friedländer, Paula Schwartz e Johanna Marbach vestivano l’élite cosmopolita. Nello stesso periodo, Dóra Kallmus — nota come Madame d’Ora — inaugurava la fotografia di moda ritraendo Chanel, Colette e Picasso, mentre la scultrice Marianne Ahlfeld-Heimann, allieva di Paul Klee, trasformava le forme infantili in sculture d’avanguardia.
Per le donne ebree, modernità e appartenenza non erano incompatibili ma tensioni complementari: emanciparsi significava “togliere il grembiule senza perdere la propria identità”. Lo raccontano anche i curiosi oggetti rituali reinventati in chiave Bauhaus — mezuzot, chanukkiot, scatole per l’etrog — che coniugavano funzionalismo e radici.
L’ascesa del nazismo interruppe bruscamente questa stagione. Molte artiste, come Ahlfeld-Heimann o l’illustratrice Tom Seidmann-Freud, finirono nei campi o si tolsero la vita; altre, come la grafica Elisabeth Tomalin o la designer Esther Berlin-Joel, riuscirono a fuggire e continuarono a creare altrove. In Palestina, Berlin-Joel firmò i celebri manifesti agricoli della nuova società ebraica, mentre Tomalin in Inghilterra trasformò il trauma in arte-terapia, disegnando per esorcizzare l’incubo.
La mostra berlinese, aperta fino al 23 novembre, è la prima a restituire a queste figure la loro voce. Non si limita a un omaggio: è una riflessione sul nesso fra genere, diaspora e modernità. Racconta come l’estetica del Novecento, di solito attribuita agli uomini del Bauhaus, debba molto anche a queste donne che, nei laboratori e nei salotti di Weimar e Berlino, ridefinirono la forma dell’Europa — e pagarono il prezzo più alto per averlo fatto.