La ghenizà afghana

di Daniele Liberanome

Trovati in una grotta abitata da una lupa e dai suoi cuccioli, oppure trafugati chissà dove da tombaroli senza scrupoli, sono recentemente venuti alla luce dei documenti provenienti da una comunità afghana del 10° secolo e.v.

Fino ad ora, sapevamo della presenza di ebrei in quell’area solo dai racconti di viaggiatori come Benyamin di Tudela o dalle lettere di Maimonide, ma pareva che niente di originale fosse sopravvissuto alla tremenda invasione mongola del 13° secolo. «La ghenizà afgana doveva essere formata da 200 fogli, ma al momento la Biblioteca Nazionale di Israele è riuscita a comprarne solo 29; il resto è in mano a mercanti internazionali che probabilmente giocano al rialzo.

Fortunatamente, i documenti sono in materiale resistente e non dovrebbero soffrire troppo da questo tira e molla», dice Ophir Haim, lo studente israeliano che li sta studiando per conto della Università di Gerusalemme. Al momento è impegnato a decifrarli e tradurli: sono scritti in lingue poco conosciute, cioè in un persiano medio, scritto in caratteri arabi difficilmente distinguibili, o in persiano-ebraico, un dialetto locale traslitterato in ebraico (una sorta di yiddish afgano).

Ho incontrato Ophir a Milano, emozionato per essere coinvolto in questa vicenda alla Indiana Jones che promette di aprire uno squarcio di luce su una realtà sconosciuta. «Per quel che abbiamo potuto verificare finora, nella ghenizà si trovavano soprattutto dei contratti e accordi commerciali, ma abbiamo trovato anche composizioni poetiche e testi religiosi, tutti riconducibili alla famiglia di Abu Nasser Simantov ben Daniel e del figlio Abu Hassan».

L’attivismo commerciale non stupisce: la famiglia viveva non lontano da Bamyan (dove si trovavano i giganteschi Buddha distrutti dai talebani) e da Zarne, e quindi sulla Via della Seta battuta dalle carovane che portavano spezie orientali in Europa. I Simantov si guadagnavano da vivere grazie alla forte integrazione con la società circostante. Commerciavano in prodotti agricoli (forse proveniente dai loro stessi campi), e prestavano denaro ad arabi della zona, non a mercanti europei. Evidentemente, si fidavano delle autorità del posto e della loro legislazione, visto che la maggior parte dei contratti sono redatti in base alla legge locale, e sul retro è aggiunto solo un breve riassunto in persiano-ebraico.

Novità scientifiche importanti dovrebbero saltare fuori anche dall’analisi dei testi religiosi, in particolare da alcuni estratti del libro di Bereshit e dal libro di Giosuè commentato niente di meno che da Saadya Gaon, grande pensatore ebraico di riferimento in quel periodo e fiero oppositore dei Caraiti. I testi qui ritrovati saranno identici a quelli che sono giunti fino a noi? O contengono qualche variante? Ophir inizia col sottolineare che in questi fogli il nome di Dio non viene mai scritto, ma sostituito da tre yud. Perché tre? C’è ancora molto da studiare, e il nostro Ophir-Indiana Jones ha appena iniziato a lavorare.