Intervista/ J. Manuel Fajardo, la Spagna e la memoria dell’espulsione degli ebrei

di Miriam Bendayan

A Tel Aviv, Dana, una cinquantenne divorziata da poco, incontra improvvisamente l’amico e collega Santiago Boronì, che non vedeva da un paio d’anni. Dopo una notte di passione lui però le annuncia di voler partire per la città santa di Safed. Arrivati lì, la donna scopre di avere al fianco un uomo che pare improvvisamente impazzito… parla una lingua antica e insiste nel voler essere chiamato “Jamaica”.

E’ questo il punto di partenza de “Il mio nome è Jamaica” (Guanda 2011, 314 pagine) interessante romanzo dello scrittore spagnolo José Manuel Fajardo, uscito da poco in Italia. Si tratta di un viaggio intenso nella psicologia di un uomo ferito, dove la narrazione dei percorsi esistenziali di Santiago e Dana è anche l’occasione per affrontare tematiche come la ricostruzione storica del passato, l’espulsione degli Ebrei dalla Spagna e la ricerca della verità. Abbiamo incontrato l’autore per capire meglio la genesi e gli obiettivi del romanzo.

Come mai ha deciso di scrivere questa storia? Come ha avuto l’ispirazione?

“Il mio nome è Jamaica” è il romanzo che conclude un ciclo di scrittura, iniziato già con i miei precedenti libri “Lettera dalla fine del mondo” e “Al di là dei mari”, dove ho voluto approfondire il tema della cultura ebraica e di quella musulmana. Questa, infatti, come gli altri due romanzi, è un’opera che cerca di ricostruire le radici della cultura spagnola.
La Spagna purtroppo è un paese che si è costruito attraverso esili: è un paese che nei secoli passati ha multilato grandi parti del suo corpo sociale e così ha creato una visione di se stesso univoca, unidimensionale, riconducibile solo alla realtà cattolica… come se tutta la storia del paese avesse veramente come base solo questa tradizione.
Invece la storia di questa nazione è stata fatta non solo da coloro che sono rimasti, ma da colore che hanno dovuto andarsene, gli Ebrei nel 1492, i Musulmani nel 1609 e, nei secoli più recenti, liberali e repubblicani.

Tutte queste persone, nonostante abbiano vissuto fuori dalla Spagna, fanno parte in maniera imprescindibile della sua identità. Attraverso i miei libri ho voluto appunto recuperare tutta questa memoria.

E nella società spagnola attuale c’è, secondo lei, abbastanza consapevolezza di tutto questo e dei drammi che sono avvenuti in passato (le espulsioni)?

Sono passati tanti secoli e quindi purtroppo, per molto tempo, queste vicende sono state viste come estranee. Negli ultimi anni invece, per fortuna, è iniziato un recupero del passato, per tramandare una verità storica molto più vicina alla realtà. E penso che, attualmente, la memoria del popolo spagnolo sia divenuta più completa.

A questo proposito c’è un fatto che mi preme ricordare per mostrare come siano cambiati i tempi: in Spagna c’è una figura molto importante, quella del difensore civico: per dieci anni a ricoprire questo ruolo è stato un ebreo, Enrique Múgica Herzog. Mi pare molto bello che, cinque secoli dopo l’espulsione degli ebrei dalla Spagna, sia un ebreo colui che abbia avuto il compito di difendere il popolo spagnolo nei confronti dello Stato.

Il romanzo è ambientato  per la maggior parte in Israele: ha mai visitato il paese?

No, ma non penso questo sia un problema, così come non è un problema che io non sia una donna e non sia ebreo ( la voce narrante del romanzo è una donna ebrea, ndr): scrivere permette di vivere altre vite e immedesimarvisi anche se non si sono sperimentate davvero certe esperienze. Ovviamente per parlare di Israele mi sono documentato in tutti i modi possibili. Ho inoltre molti amici ebrei e molti di loro conoscono Israele in prima persona.

Ecco a proposito della voce narrante… il suo libro affronta il tema dell’identità e colpisce il fatto che tutto sia raccontato attraverso le parole di una donna. E’ stato difficile per lei entrare così profondamente nella psiche femminile?

Nei miei romanzi ho sempre tentato di parlare dell’ “altro” e lo dimostra l’attenzione che ho riservato alle vicende storiche di ebrei e musulmani in Spagna.
Proprio in quest’ottica ho deciso avere come voce narrante in questo romanzo un personaggio femminile. Per gli spagnoli del quindicesimo secolo gli “altri” erano ebrei e musulmani, per me che sono uomo nell’epoca contemporanea, “l’altro” è una donna.

Attraverso la scrittura ho voluto entrare in un punto di vista che, nella vita reale, non ho.

Utilizzare come voce narrante quella di una donna è stato comunque interessantissimo: ci si rende conto che, anche se non se ne è consapevoli, si guarda sempre il mondo attraverso i condizionamenti del proprio genere.

All’inizio, scrivendo, mi sono accorto che volevo inserire frasi, pensieri che una donna non esprimerebbe mai. Dovevo quindi sempre rileggere tutto e inoltre mi sono fatto aiutare da mia moglie Carla Suarez e da un’amica, Rosa Montero. Anche loro sono scrittrici e soprattutto lettrici severissime nel giudizio!

Alla fine del romanzo, attraverso le parole di Dana, emerge il valore liberatorio della verità (emet). Pensa che anche nella vita reale la verità sia sempre liberatoria?

La ricerca della verità è come la ricerca del paradiso: la verità, unica e assoluta, non esiste, così come non esiste il paradiso. L’importante è però cercarli!

Non credo, ripeto, nella verità assoluta, nonostante non sia però neanche un relativista: si può cercare un’unica verità al massimo su questioni concrete e piccole, per tutto il resto ci sono tante verità.