Gualtiero Morpurgo: la vita come avventura

di Ester Moscati
Dal lavoro coatto in Svizzera, ai concerti con il suo violino “rifugiato”; dalla laurea in ingegneria alle invenzioni per le Navi della Speranza dell’Alyià Beth, a fianco di Ada Sereni, inseguendo il sogno della rinascita di Israele. Vita e avventure di un uomo dal tratto signorile che, per la sua prestanza, stupì anche i camalli di Genova, che lo consideravono uno di loro.

Di giorni memorabili nella vita di Gualtiero Morpurgo ce ne sono stati tanti. Quello in cui sua madre gli regalò il primo violino non è certo il meno importante, dato che la musica fu per lui una compagna inseparabile nelle fughe, nelle lotte, nella vita nascosta o randagia, in mille avventure. E il violino è sempre stato il suo alter ego, tanto che i suoi libri di memorie si intitolano Il violino rifugiato, Il violino liberato. Ma l’amore per la musica è anche il segno di un animo gentile e un po’ schivo. «Una mattina, verso la fine del novembre 1992 – raccontò durante un incontro voluto da Paola Sereni su Via Unione, luogo di transito nel dopoguerra – ricevetti una telefonata dall’Ambasciata di Israele a Roma. Una gentile voce femminile mi informò che per il successivo 6 dicembre sarebbe arrivato a Roma il Presidente Rabin e mi comunicò il formale invito per la cerimonia a Villa Madama. Risposi che ero lusingato per il gentile invito, ma che, non rappresentando alcuna organizzazione ebraica, ma solo la mia modesta persona, non pensavo indispensabile la mia presenza a Roma. Dopo pochi minuti mi richiamarono e una voce più autorevole mi disse che forse prima non si erano spiegati bene, poiché la mia presenza era necessaria per il fatto che il Presidente Rabin doveva insignirmi di una decorazione per la mia partecipazione alle operazioni della Alyià Beth del 1945. Potete immaginare la mia sorpresa e naturalmente confermai, pregando di tener presente anche il nome del mio vecchio amico ingegnere Mario Pavia, che fu prezioso collaboratore in quella straordinaria avventura di mezzo secolo prima. E così con le relative consorti partimmo per Roma, insieme a Marcello Cantoni, altro decorato. Nella capitale c’era già il generale Alberto Li Gobbi, convocato anche lui quale premiato per la sua collaborazione nei trasporti di materiali e di superstiti dei campi verso i porti di imbarco».

Il lavoro per l’Alyià Beth

Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale al maggio del 1948 sono partiti dalle coste italiane 34.000 ebrei su una quarantina di navi, dodici delle quali furono affondate, per fortuna senza vittime. Gualtiero Morpurgo era stato incaricato da Raffaele Cantoni di lavorare a fianco di Ada Sereni per l’allestimento di queste navi, che erano spesso “carrette del mare”, affidate alla speranza e al Signore. Gualtiero aveva lavorato prima della guerra nei cantieri navali di Genova. Era un bel ragazzo atletico, abituato alla montagna, ma la qualifica di ingegnere e l’aplomb signorile lo rendevano agli occhi dei camalli un borghese da tenere a distanza. Ma un giorno, per un problema su una gru, a trenta metri da terra, lo videro arrampicarsi come uno stambecco, senza protezioni. Da quel giorno, per i rudi portuali di Genova, Gualtiero fu “uno di noi”. Un’esperienza, quella di ingegnere navale, che mise a frutto per la preparazione delle navi clandestine. A Milano in quel primo dopoguerra iniziarono a prodursi i tubi Innocenti destinati alle impalcature della ricostruzione edilizia. Morpurgo ebbe un’idea: smontati, quei tubi erano semplicemente un carico di materiale da esportazione che poteva essere fatto passare indenne sotto il naso delle motovedette inglesi che pattugliavano le coste. Di notte, venivano velocemente montati a formare cuccette per i profughi in viaggio. I camion della Brigata Ebraica facevano la spola tra Milano e Genova o La Spezia, trasportando il prezioso materiale. «Come è noto, – racconta Morpurgo – dopo la favorevole Dichiarazione Balfour, la politica inglese era diventata contraria agli ebrei per mantenere buone relazioni con il mondo arabo e venivano concesse minime quote di immigrazione. Cantoni sapeva che avevo lavorato come ingegnere nei Cantieri Navali di Genova e pensava che fossi un elemento adatto da presentare alla direzione delle operazioni. Accettai e così conobbi Ada Sereni, che mi spiegò che avrei dovuto allestire le navi che mi sarebbero state consegnate nei vari porti del nord, ricavando nelle stive e dove possibile il maggior numero di cuccette. Mi fece presente subito che questa volontaria collaborazione sarebbe stata irta di pericoli, con possibilità di arresto e di galera da parte degli inglesi, e naturalmente il tutto senza difese e senza compensi». E di pericoli dovette affrontarne molti, ma sempre con uno spirito indomito e un coraggio che è passato alla storia. In occasione della sua scomparsa, nel 2012, il sindaco di La Spezia Massimo Federici scrisse: “Gualtiero Morpurgo, insieme a Mario Pavia, è stato ingegnere, costruttore delle navi Fede e Fenice, salpate dal molo della Spezia per la Palestina l’8 maggio 1946. Un uomo che con il suo coraggio, con la sua dignità e professionalità ha salvato e dato nuova speranza di vita a migliaia di profughi dei lager. Fu premiato, insieme a Pavia, nel 1992 dal Primo Ministro israeliano Rabin con la Medaglia d’Oro per l’aiuto prestato all’immigrazione ebraica. Nel 2008 ricevette il Premio Exodus alla carriera, sempre insieme a Pavia. La città della Spezia vuole ricordarlo e rendere omaggio alla sua straordinaria esperienza umana e professionale che ha contribuito a fare della Spezia la Porta di Sion, portatrice di un sempre vivo messaggio di speranza”.

La fondazione del Bollettino della Comunità ebraica

Gualtiero Morpurgo era nato in Ancona nel 1913, orgoglioso discendente di quel Sanson Morpurgo, medico e celebre talmudista, che alla fine del 1600 portò nelle Marche la sua scienza e la sua cultura. Il giovane Gualtiero nel 1943, dopo l’armistizio e la calata dei tedeschi in Italia, si mise lo zaino in spalla, con il suo violino ben riposto, e attraversò il confine svizzero. Finì in un campo di rifugiati, a Pian San Giacomo, dove lavorò duramente, confortato solo dalla musica. Prese a organizzare piccoli concerti con un gruppo di nuovi amici e fu proprio lì che conobbe la giovane dalla “figurina elegante e snella” per la quale si trovò a compiere quello che considerava un ennesimo atto di coraggio: “Linda, mi vuoi sposare?” “Veramente, non sono molto sicura” “Ma io sì!”. Tornato a Milano dalla Svizzera, in via Unione dove la Comunità riprendeva faticosamente la sua vita, Gualtiero fondò il Bollettino della Comunità ebraica di Milano, all’inizio solo un foglio ciclostilato per permettere di riallacciare i rapporti, dare le notizie e gli elenchi degli scampati dai campi, le informazioni indispensabili a ricostruire un tessuto sociale. Ideò e disegnò la testata, si dedicò a servire la sua comunità e i sopravvissuti con quella passione, con il coraggio e la volontà che saranno la cifra di tutta la sua vita. «Dalla feroce occupazione tedesca si era passati alla rigida dominazione alleata – raccontò – che nel nord d’Italia era in gran parte inglese. Il nostro tempio di via Guastalla era stato bombardato e distrutto, la comunità era dispersa e non esisteva un centro di informazioni né un minimo di organizzazione. Su questo disperato scenario stavano arrivando intanto i superstiti dei campi di sterminio. La prima fortunata circostanza fu la presenza a Milano della Brigata Palestinese: avevo subito notato con un balzo al cuore il Maghen David che era dipinto sulle fiancate di molti camion militari che circolavano in città, e mi avevano informato che si trattava dei veicoli della brigata ebraica che era stata incorporata nell’Ottava Armata del Generale Alexander e che aveva eroicamente combattuto durante la risalita della penisola lungo la costa adriatica, purtroppo con considerevoli perdite. Nel frattempo in comunità fu subito necessario organizzare un centro di informazioni, essendo inondati da liste di nomi e da richieste di notizie dei dispersi. D’accordo con Cantoni, fondai così il Bollettino con copie a ciclostile e lo diressi sino al 1951».

La vita continua, sulle corde del suo violino

Dopo la morte di Gualtiero Morpurgo, si può dire che, in qualche modo, la sua vita continua, perché il suo violino – il suo alter ego – suona ancora. La famiglia ha voluto donarlo, infatti, al liutaio di Gerusalemme Amnon Weinstein, che si occupa di curare, se è il caso restaurare, i Violini della Speranza, appartenuti a deportati, o ritrovati nei lager. Amnon Weinstein ha scelto, tra gli altri, il violino Morpurgo per lo straordinario concerto tenuto a Berlino nel 2015, unico violino italiano nel corso della manifestazione internazionale I violini della Memoria, dedicato alle vittime della Shoah, che vide protagonista una formazione cameristica dei Berliner Philharmoniker. Un violino “rifugiato”, “liberato” e infine “sopravvissuto”, dunque, che ha accompagnato Gualtiero in tutto il corso della sua straordinaria vita, compresi gli anni passati in Cile per lavoro. Per chi volesse leggere la vita lunga e ricca di avvenimenti di quest’uomo forte, intelligente e coraggioso, vale la pena leggere i sui libri, Il violino liberato, Il violino rifugiato, La busta gialla (Mursia editore).

 

Parlano Daniele Misrachi e Gadi Schoenheit
Il Bollettino/Bet Magazine,
dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale alle sfide del mondo digitale

«Chissà chi l’avrebbe mai detto che dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale sarebbe nato un giornale ebraico, stampato ancora oggi!», esclama Daniele Misrachi, attuale assessore alla Comunicazione della Comunità ebraica di Milano. Si può certamente dire che il Bollettino, che nel 2015, in occasione di Expo a Milano, ha affiancato alla storica testata il nome Bet Magazine, sia diventato uno dei punti di riferimento dei lettori ebrei in Italia, ma anche, grazie soprattutto al sito Mosaico, dei tanti italiani interessati alla cultura ebraica. «Dal 1945 ad oggi, il nostro magazine mensile è cresciuto e migliorato, adeguandosi ai cambiamenti della società e cercando di essere sempre un punto di riferimento per i lettori. Da quasi 20 anni abbiamo raddoppiato la nostra proposta giornalistica con la creazione del sito web Mosaico che viaggia di pari passo con la rivista cartacea. In Italia è l’unica testata che abbia 75 anni di storia. Non c’è un prodotto editoriale in altre comunità ebraiche italiane che abbia una vita così lunga. Questo è avvenuto grazie al grande lavoro portato avanti finora dai direttori, giornalisti e collaboratori del magazine», ha sottolineato l’assessore. Gli interrogativi sul futuro di Bet Magazine – Bollettino rientrano in un discorso più ampio legato ai nuovi sviluppi dell’editoria. La carta è destinata a scomparire? «Sono in molti a domandarsi se la rivista cartacea debba essere ancora stampata. Io rispondo che sì, è ancora necessario farlo. Ne sono convinto al 100% perché abbiamo un target eterogeneo di lettori, inclusi i nativi cartacei: persone di una certa età, ma non solo, che hanno anche un legame sentimentale con i prodotti da sfogliare». Misrachi ha poi parlato delle future sfide che la rivista dovrà affrontare: «Da 75 anni siamo impegnati nel campo dell’informazione ebraica. Adesso le cose sono un po’ cambiate. In passato avevamo una pubblicazione al mese, mentre oggi produciamo quotidianamente notizie attraverso gli strumenti digitali: sito Mosaico, newsletter, social network e webinar». Quest’ultimo strumento ha infatti preso piede durante la pandemia, permettendo la realizzazione di incontri e lezioni online: «Io credo sia destinato a lasciare il segno nel mondo della comunicazione rispettando una sola condizione: la qualità dei contenuti», ha sottolineato Misrachi. «Per il futuro vorrei proseguire su questa strada, sapendo benissimo che gli incontri dal vivo non saranno mai rimpiazzati dal digitale. Tuttavia i webinar sono un utilissimo mezzo di comunicazione per sfruttare le potenzialità di Internet, cercando di essere sempre più inclusivi». Durante gli anni passati, Bet Magazine – Bollettino ha dato la possibilità a diversi ragazzi di potersi cimentare con la produzione giornalistica: un’opportunità sempre più rara in questi momenti caratterizzati dalla crisi della stampa. «Abbiamo dato e diamo la possibilità a molti giovani di collaborare con noi, scoprendo diversi talenti. Credo che sia un motivo d’orgoglio poter diventare giornalisti scrivendo per i media della Comunità ebraica di Milano». Paolo Castellano

Gadi Schoenheit: «Attraverso il Bollettino,
conoscevamo gli ebrei che arrivavano dai paesi arabi».

Una storia di integrazione «Per la mia famiglia, che era di Ferrara, il Bollettino per anni è stata l’unica relazione con la Comunità ebraica di Milano: la fotografia scritta di una comunità che ripartiva alla velocità della luce, una testimonianza reale di una rinascita concreta». È un ricordo lontano ma vivo quello con cui Gadi Schoenheit, assessore alla Cultura della Comunità ebraica di Milano, descrive il suo rapporto con quel giornale nato nel giugno del 1945, quando ancora Milano era distrutta e mortificata dalla guerra, e la comunità ebraica locale cominciava a contare i propri morti. Ma con la volontà e la forza vitale di ripartire, nella sede temporanea della Comunità in via Unione e riaprendo la Scuola ebraica. Proprio sul primo numero di quel foglio ciclostilato, c’era il nome del padre di Gadi, Franco Schoenheit z”l, sopravvissuto a Buchenwald (e venuto a mancare pochi mesi fa). «Era strano che il nome di papà, che era di Ferrara, comparisse sul neonato giornale della comunità di Milano – continua -. Era però un segno che quello che era successo agli ebrei italiani interessava tutti, indipendentemente dall’origine». Non è tutto. Per Gadi Schoenheit il Bollettino è stato anche uno strumento di formazione e informazione negli anni frequentati alla scuola ebraica. «Leggevamo con i maestri e i professori, soprattutto tutto ciò che riguardava Israele, una realtà che stava nascendo e crescendo – continua -. Ma era anche un importante mezzo per fare integrare gli ebrei che in quegli anni arrivavano dai Paesi arabi, e per aiutare noi ad accettarli e socializzare con loro, attraverso la conoscenza delle loro tradizioni e dei loro Paesi che ci davano gli articoli del Bollettino». Da allora sono passati decenni, ma il Bollettino, oggi Bet Magazine continua a essere un veicolo importante di informazione e conoscenza reciproca delle diverse anime che compongono la nostra variegata comunità. «Ma anche, sempre di più, è una finestra aperta alla società esterna sulla fervida e attiva vita culturale ebraica milanese, attraverso cui anche i non ebrei guardano con interesse e si costruiscono relazioni fondamentali», conclude Schoenheit. Ilaria Myr