Goti Bauer: «Chi è sopravvissuto ha l’anima ferita. Non deve subire anche la banalizzazione del suo dolore»

di Ilaria Myr

Il suo treno partì il 16 maggio 1944 dalla stazione di Milano. A 75 anni dalla deportazione dal Binario 21, Goti Bauer parla dell’importanza della memoria della Shoah e del suo timore che essa vada perduta, che si smarrisca nel tempo.

 

«Non so se oggi ci sia davvero ancora interesse per la Shoah, mi sembra che negli anni si sia andato affievolendo. Non crede anche lei?». Questa domanda ricorre più volte durante la nostra conversazione con Goti Bauer, 95 anni a luglio, sopravvissuta agli orrori del nazismo, per molti anni attiva nel portare nelle scuole la propria esperienza di testimone. «Ho l’impressione che da qualche anno la gente sia meno coinvolta da questi fatti che sono sentiti come lontani, di fronte invece a tragedie più vicine e contemporanee – continua -. Non vorrei che il giorno della memoria si stesse trasformando in un’occasione banalizzata in cui si chiama il testimone “perché si deve”: la Shoah è sacra, e un testimone, anche a distanza di 80 anni, continua ad avere davanti agli occhi quelle immagini, quelle file di bambini con un giocattolo in mano mentre andavano alle camere a gas… Il sopravvissuto rimane un’anima ferita, che non vorrebbe essere colpita ulteriormente dall’indifferenza o dalla noia».

Parlando le riaffiorano alla memoria alcuni episodi che le hanno suscitato perplessità. «Una volta un ragazzo mi disse: “Mi dispiace molto per le sofferenze che ha vissuto. Ma ad Auschwitz, almeno quando era il suo compleanno, le portavano la torta?” – ricorda sbigottita -. O un altro ragazzo, al Conservatorio, che dopo che avevo raccontato nel dettaglio tutto quello che lì succedeva, mi chiese: “ma alla fine ha ritrovato i suoi genitori?”. Ecco, questi episodi fanno capire che spesso la preparazione ad ascoltare un testimone data dagli insegnanti può essere inadeguata, perché non porta i ragazzi a credere ai nostri racconti e a immedesimarvisi. Ci sono quelli che ci riescono e con alcuni mantengo ancora un’amicizia sincera. Ma nel futuro ce ne saranno altri di altrettanto validi?». Solo parlando con noi e leggendo l’articolo in cui Daniela Dana Tedeschi, vice-presidente dell’Associazione Figli della Shoah, racconta di una crescente attenzione da parte delle scuole (vedi Bet Magazine di marzo), sembra consolarsi. «Se davvero c’è una diffusione del ricordo, in qualche modo mi sento più serena, perché mi fa sperare che nel futuro tutto ciò non venga dimenticato».

Questa profonda riflessione sulla memoria e sulla didattica della Shoah avviene nel 75° anniversario della sua deportazione dal Binario 21 ad Auschwitz Birkenau. «Il 1 maggio del 1944 tentammo di attraversare il confine svizzero, ma le nostre guide ci tradirono e fui arrestata con mia madre – spiega a Bet Magazine -. Passammo dal carcere di Varese a quello di Como e poi a San Vittore. Partimmo dal Binario 21 della stazione di Milano il 16 maggio, passammo per Fossoli e poi arrivammo ad Auschwitz il 23 maggio 1944». Da Auschwitz, Goti fu trasferita a Wilischtahl nel novembre 1944, e quindi al campo di concentramento di Theresienstadt, dove si trovava al momento della liberazione, il 9 maggio 1945.

Fu l’unica della famiglia a sopravvivere: i suoi genitori furono immediatamente condotti alle camere a gas; il fratello Tiberio morì a Buchenwald nell’aprile-maggio 1945.
«Ritornata a Milano fui invitata da carissimi amici della mia famiglia a vivere da loro, ed è per merito della loro affettuosa e dolcissima accoglienza che riuscii a ricominciare a vivere – continua commossa -. Lì conobbi Rudy Bauer, che era arrivato dall’Eritrea dove da anni viveva: ci sposammo e tornammo in Eritrea, dove nacquero le mie due figlie».
Nella sua vita Goti è tornata quattro volte ad Auschwitz, l’ultima delle quali circa 25 anni fa con il marito. «Le prime volte rivedevo tutto davanti ai miei occhi, perché il campo era così come lo ricordavo – racconta -. Ma l’ultima volta mi ritrovai davanti a delle casette ristrutturate, non era più il luogo in cui io avevo vissuto. Decisi che non ci sarei più tornata».

Negli anni ha partecipato come testimone a molti incontri con studenti e insegnanti, nonché con rappresentanti politici. «Ogni volta, dopo la testimonianza, tornavo a casa insoddisfatta, attanagliata dal dubbio di non essere riuscita a dire tutto, a trasmettere abbastanza di quanto è successo, molto al di là della umana capacità di comprensione. Ricordare tutto ciò è doveroso, perché quelli che non sono tornati meritano che la memoria non scompaia».