Numerosi sono stati gli articoli che settimana scorsa media e giornali hanno dedicato al caso Moni Ovadia e alla sua uscita dalla Comunità ebraica di Milano. Fra questi, l’ultimo, forse, in ordine di tempo, è quello di Giulio Meotti, uscito sabato 9 novembre su “Il Foglio” diretto da Giuliano Ferrara.
In “Il maquillage di Moni Ovadia, l’ebreo che si crede migliore di Israele”, Meotti ripercorre rapido le origini di Ovadia, dai tempi in cui frequentava il tempio di Porta Romana di Rav Rodal, fino al successo nei teatri – grazie al quale ha fatto conoscere un pò ovunque, e a vari livelli, un mondo semisconosciuto in Italia come quello della cultura yiddish; fino, ancora, alle prese di posizione pubbliche, su Israele. Prese di posizione con le quali, scrive Meotti, Ovadia si è fatto “portavoce e bandiera di un umore anti israeliano profondo”, non diversi al fondo, da quello che attraversa e accompagna certe frange della sinistra estrema e pacifista israeliana, ricorda ancora Meotti.
Posizioni e idee legittime in paesi democratici come Israele e l’Italia che tuttavia nascondono un pericolo, specie se rimaniamo in Europa: alimentano un antisemitismo che qualche anno fa avremmo definito “strisciante” e che oggi invece in certi ambiti è ormai palese e si manifesta non solo a parole ma con fatti concreti (tralasciando gli attentati, basterebbe dire che nei parlamenti di Grecia e Ungheria siedono esponenti di di due partiti di estrema destra nel cui magma ideologico si mescolano razzismo, xenofobia, antisemitismo, negazionismo, antisionismo).
Meotti chiude il suo articolo con un’osservazione: “Il cantore della miseria dello shtetl ha diritto alle proprie idee, ma anche gli ebrei a respingerle”. E, viene da aggiungere, la democrazia è proprio questa.
Qui sotto, il testo integrale dell’articolo di Giulio Meotti (Il Foglio, 9 novembre 2013).
Salomone Ovadia, detto “Moni”, è un grande dell’eloquio yiddish. Sbeffeggia e deride, con la tipica vena ebraica del rimpianto, e lo fa in modo fluido, ricco, affascinante, con gusto della parola incisiva che incanta. Ovadia trascina le platee. Bulgaro sefardita, Ovadia ha frequentato il tempio di Porta Romana (Sheerit Hapletat), ebrei non tutti ortodossi ma tradizionalisti, del quale Rav Rodal era l’animatore, e con la sua voce squillante e l’intonazione un po’ infantile è stato da esempio per Ovadia. Per questo un invito al festival organizzato dalla comunità ebraica di Milano a settembre avrebbe avuto un senso. Ovadia ha poi diritto alle proprie idee su Israele. Ma aveva diritto anche la comunità ebraica milanese a porre un veto sul suo nome. A boicottare le idee del saltimbanco di successo. Ovadia è un caso di “emiplegia intellettuale”, come lo definì Jorge Semprùn, qualcosa di più della malafede. Ovadia si è fatto portavoce e bandiera di un umore anti israeliano profondo. Un sentimento mascherato bene: nella kippà che indossa, nella capacità magnetica sul pubblico, nella dimensione affabulatoria, nel maquillage antifascista e umanitarista.
E’ un uomo di pace, Ovadia, che crede che l’uomo sia un progetto etico (per questo la sua rubrica sull’Unità si chiamava “Mala Tempora”, per questo si accompagna ai corifei del dottor Gino Strada). La vocazione dell’avventura sionista non è mai stata unanime all’interno dell’ebraismo. Ma i modelli che Ovadia offre servono solo a esaltare la campagna di delegittimazione contro Israele. Due anni fa, quando terroristi palestinesi sgozzarono tre bambini e i loro genitori in un insediamento a Itamar, Ovadia fu accusato di non considerare le vittime come suoi “fratelli”, perché vivevano oltre i confini del 1967. Vecchie logiche intra ebraiche. In piena Intifada, il professor Ze’ev Sternhell, fratello questo sì intellettuale di Ovadia, scriveva su Haaretz: “Se i palestinesi avessero più buon senso punterebbero la loro lotta contro gli insediamenti, così potrebbero evitare di collocare cariche esplosive ad ovest della linea verde”. In altre parole, Sternhell, guru pacifista e di sinistra, si augurava che delle bombe esplodessero contro gli ebrei. Contro “quegli” ebrei. In una lettera sull’Unità nel 2006, mentre Haifa era sotto attacco di Hezbollah, Ovadia sostiene che Israele non deve pensare di “rappresentare la tragica eredità dello sterminio” mentre “rade al suolo intere città” libanesi. Lo scorso luglio, sempre sull’Unità, Ovadia celebra la decisione “salutare” dell’Unione europea di boicottare i prodotti israeliani che arrivano da oltre la linea verde. “A Milano c’è un pluralismo assoluto, tutti hanno diritto a dire ciò che pensano anche su Israele”, dice al Foglio Fiona Diwan, direttrice del Bollettino della comunità ebraica di Milano. “Ma Moni Ovadia ha accusato la comunità di essere l’ufficio di propaganda di Israele. E’ un fatto gravissimo e pericoloso, ci ricordiamo di Tolosa? In questo modo si fa degli ebrei un obiettivo”. Poi c’è l’aspetto culturale: “L’ebreo di Ovadia ha fatto la storia, è piatto, senza complessità, una caricatura”, conclude Diwan. Come Gad Lerner, anche lui “uscito” dalla comunità di Milano, Ovadia non rinnega l’ebraismo, lo celebra come qualcosa che ha a che fare esclusivamente con la tolleranza, con l’esilio. Sono gli “ebrei migliori”, distinti dalla massa di israeliani, possessori di una saggezza cosmopolita, liberale, umanistica, quindi davvero ebraica. Più loro attaccano altri ebrei, più dimostrano di non esserlo più. Nulla dalle parole di Ovadia lascia trapelare orgoglio per come la costruzione del monoteismo giudaico abbia partorito democrazia e diritti umani in occidente. Non c’è mai allarme sulla volontà dell’Iran di liquidare Israele, “quel bastardo illegittimo”, come lo ha appena definito l’ayatollah Khamenei. Nell’eloquio di Ovadia non c’è alcuna traccia di generosità verso un paese che respira fra la vita e la morte restando una grandissima democrazia. Diceva Amedeo Nazzari: “E chi non beve con me peste lo colga”. Ovadia la pensa così. Il cantore della miseria dello shtetl ha diritto alle proprie idee, ma anche gli ebrei a respingerle.