Rispondendo a Giorgio Israel

Opinioni

Un’opinione.

Mai come ora è necessario rispondere all’articolo di Giorgio Israel riguardante il Cardinale C.M. Martini e il suo ultimo libro (Le tenebre e la luce, Piemme), pubblicato sul mensile Shalom il 14 novembre scorso e fatto circolare in internet, raggiungendo un più vasto pubblico, attraverso la newsletter di Morashà.

Incuriosito e preoccupato da quanto riferito a tinte così fosche da G. Israel, ho prontamente acquistato il libro di Martini e, a questo proposito, vorrei fare alcune considerazioni.

Il testo del Cardinale raccoglie gli interventi e le riflessioni da lui condotte, nel corso di un ritiro spirituale per religiosi, della durata di una settimana. Il testo, nel voler cercare di riprodurre anche la scansione temporale di quel periodo di meditazione, non è stato rivisto o limato, anche perché in origine non si proponeva finalità pubbliche o di prese di posizione teologiche ufficiali. E’ stato insomma concepito per un pubblico ristretto e preparato. A conferma, cito pg 6:
“Chiedo a tutti coloro che leggeranno queste righe di tener conto dell’origine verbale e occasionale di quanto qui viene detto”.

E allora, per entrare nel vivo della discussione, in questo libro il Cardinale Martini prenderebbe forse posizioni a favore della teologia della sostituzione, mostrando mal celati accenti antigiudaici, come sostenuto da G.I.? Contraddirebbe Martini, in questo suo scritto, tutte le posizioni da lui coraggiosamente sostenute nel corso di un’intera vita?

La risposta, credo, sia un chiaro e secco “no”.
Anche se, va detto, vi sono dei passaggi che, personalmente, ritengo poco felici.
A questo proposito, come vedremo, ritengo opportuno specificare che il problema non risiede tanto in quanto scritto da Martini, ma in quanto è contenuto in un testo che per lui, come per tutta la Cristianità, è vero e sacro: i Vangeli.

Ma procediamo con ordine.
Martini commenta con questo suo scritto (soffermandosi molto sulla psicologia dei personaggi e sulla psicologia del credente cristiano che in essi dovrebbe rileggere la propria dimensione esistenziale di fede) il Vangelo di Giovanni, dal capitolo 18 al capitolo 21.
Si tratta dei capitoli consacrati dall’evangelista al racconto della Passione. Come tale, questo racconto, al pari dei racconti analoghi contenuti negli altri tre Vangeli, presenta in luce negativa gli oppositori di Gesù, sia ebrei sia romani.

Martini (pg 84) definisce il processo a Gesù come “un’ignobile farsa”, nel capitolo destinato all’analisi dei cosiddetti “sommi sacerdoti”, intitolato “i sommi sacerdoti: invidia, ambizione, vanità”.
Lo scopo di Martini, palese per chi legge nel loro contesto queste dure affermazioni, non è quello di riaffermare la teologia della sostituzione (che lui per primo contribuì fattivamente a superare e, per quello che gli è stato possibile, eliminare!) criticando attraverso la critica mossa ai sommi sacerdoti l’ebraismo in quanto tale e il popolo di Israele. Lo scopo del Cardinale è quello, leggendo il testo giovanneo come una raffinatissima pièce théatrale, di ravvisare nel personaggio dei sommi sacerdoti, il simbolo di una religiosità sclerotizzata, problema che investe e che può investire, a suo dire, le alte gerarchie ecclesiastiche e che è una tentazione di ogni forma intransigente di ortodossia religiosa, indipendentemente dalla fede professata.

È significativo inoltre che, nel fare queste critiche osservazioni e nel muovere queste accuse, il Cardinale utilizzi sempre i pronomi di prima persona, singolare o plurale. Scrive infatti Martini:
“Dobbiamo anzitutto rilevare che l’invidia, la sofferenza per il bene altrui, è un sentimento assai diffuso. (…) L’invidia è tipica degli ambienti organizzati gerarchicamente – si parla di invidia clericalis -, serpeggia nelle “corti” di ogni tipo, e un po’ anche in noi. E, in ambiti religiosi, ha una caratteristica che la rende ancora più insidiosa e subdola: si manifesta con una forma apparente di zelo, ammantata di osservanza e di rigore, di purezza.”
Certo, si può rimproverare a Martini, seppur ai fini di un’autocritica spirituale propria e dei cristiani, di aver impiegato come “antonomasia” di invidia, potere e ambizione proprio i capi religiosi del popolo ebraico…ma il problema è costituito da Martini o, piuttosto, dal Vangelo che così li dipinge? Non dimentichiamoci che questo problema, per come viene raccontata la vicenda nei Vangeli, comunque rimane, indipendentemente dagli esegeti e dai commentatori, siano anch’essi brillanti e amici del popolo ebraico come lo è Martini. Si tratta infatti, primariamente, di un cristiano, che, come tale, crede e rivendica verità storica e teologica ai quattro scritti evangelici.
È vero che nella Nostra Aetate si raccomanda quanto ricordato da Israel nel suo articolo, ma è anche vero che la stessa Dichiarazione in un altro passo così recita:
“E se le autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo (Giovanni 19, 6), tuttavia…”

Il capitolo su cui Israel ha molto criticato Martini è quello riguardante il processo a Gesù.
L’argomento è delicato e spinoso. Tutte le citazioni riportate da Israel sono vere, ma sono secondo me presentate in maniera tale che queste frasi, per me comunque difficili da digerire, sembrino effettivamente un ritorno alla teologia della sostituzione, cosa che in realtà non è (faccio in particolare riferimento alle pg. 76-77 del testo citato).
Quello che Martini vuole dire, che secondo me è chiaro per chi legge il testo integralmente, è che ogni tradizione religiosa è soggetta, purtroppo, a forze che la possono irrigidire e rendere pericolosa, specie se alleata al potere.
Martini non afferma che l’ebraismo è decaduto o che non ha più senso, così come non afferma che l’ebraismo in se ipso sia corrotto dal potere: egli utilizza simbolicamente spunti purtroppo chiari offertigli dal Vangelo.

Il problema del dialogo con i cristiani è fare i conti con certe parti degli scritti evangelici, con le successive interpretazioni antigiudaiche, con due millenni di persecuzioni, benedette da papi, vescovi, “santi”, in cui all’acqua santa si mescolava il sangue dei figli e delle figlie di Israele.
Lungi dal Cardinale Martini un ritorno a posizioni sorpassate, e sorpassate, in molti casi, proprio grazie a lui. E non certo grazie alle recenti iniziative di Papa Benedetto XVI, tanto lodato e difeso, come figura “esemplare” di dialogo e di apertura mentale (sic!), dal medesimo Giorgio Israel.
Vogliamo dimenticare quanto fatto pubblicamente e coraggiosamente da Martini, messosi in gioco in prima persona, nell’arco di una vita?
Vogliamo dimenticare che se la conoscenza e il rispetto per l’Ebraismo e Israele sono aumentati lo si deve anche e soprattutto, grazie a lui?

Israel cita giustamente come vessillo del dialogo ebraico-cristiano Giovanni Paolo II. Ebbene, il precedente Pontefice, che tanto fece per il dialogo, così si espresse sull’Osservatore Romano:
“Storicamente responsabili di questa morte sono gli uomini indicati nei Vangeli, almeno in parte, per nome (…). Gesù allude alle varie persone che, in diversi modi, saranno gli artefici della sua morte: Giuda, i rappresentanti del Sinedrio (…); Sull’esempio di Gesù e di Pietro (At. 2, 23), anche se è difficile negare la responsabilità di quegli uomini che provocarono volutamente la morte di Cristo, noi guarderemo alla luce dell’eterno disegno di Dio…”
Si consideri che le appena citate parole di Giovanni Paolo II sono contenute proprio nei sussidi della CEI intitolati “In dialogo con i fratelli maggiori”.

Come la mettiamo allora? Il dialogo non ha senso?
Martini e il precedente pontefice, ambedue campioni del dialogo con gli ebrei, sarebbero contraddittori o avrebbero tendenze antigiudaiche?
Rispondo no a ambedue le provocazioni.

Il dialogo ha senso, tanto più è difficile e tanto più dà da pensare.
Martini e Giovanni Paolo Secondo sono cristiani e, come tali, non possono non fare i conti con le loro Sacre Scritture, il che per noi è talvolta problematico.

In conclusione, ritengo davvero poco corretto attaccare un nostro amico pubblicamente, un uomo che tanto ha fatto e che tanto continua a fare per l’ebraismo e per la pace. E dispiace, specialmente, che, nel fare questo, si sia ricorsi proprio ad una pubblicazione ebraica.
Se vi erano dei punti interrogativi, anche inquietanti, era doveroso interrogarlo e discuterne fraternamente e non mescolando, inoltre, fede, dialogo interreligioso e politica.

Quanto alle presunte e sbandierate “aperture” di papa Ratzinger, risulta evidente che sono state fin troppo contraddette sia dalle varie posizioni sposate dall’attuale papa circa la contemporaneità nelle sue varie espressioni, sia della recente sua iniziativa di ripristino dell’antica formula latina del Venerdi Santo, insistente tuttora sulla conversione degli ebrei. E fu sempre l’allora Cardinale Ratzinger, pochi anni fa, nella Dichiarazione Dominus Iesus da lui sottoscritta e redatta, benché promulgata ufficialmente da Giovanni Paolo II, ad affermare apertis verbis che al di fuori della Chiesa non vi è alcuna salvezza, facendo notevoli passi indietro rispetto alle aperture del Vaticano II.

È forse questo un atteggiamento che aiuta al dialogo?
L’atteggiamento di dialogo, non solo con gli ebrei, e di sensibilizzazione alla pace e alla conoscenza dell’altro è stata la chiave di volta dell’episcopato di Martini, come del Pontificato di Giovanni Paolo II, impegnando la riflessione umana e teologica di entrambi, con ricadute “pratiche” nel tessuto sociale delle nostre società.
Quell’atteggiamento di Ratzinger certo non aiuta.

In generale ricordo come monito la frase dell’illustre filosofa ebrea americana contemporanea Martha Nussbaum secondo cui una società, un’istituzione o un pensiero in cui non vi sia sufficiente posto per ebrei, neri, omosessuali e donne è una società, un’istituzione, un pensiero o pericoloso o a forte rischio.

Comunicato di Noi siamo Chiesa

La nuova preghiera del Venerdì Santo “pro judaeis” esprime una teologia preconciliare e rende difficili i rapporti col popolo ebraico

L’improvvido motu proprio “Summorum Pontificum” , che ha permesso di ritornare a celebrare l’Eucaristia nella Chiesa cattolica secondo il rito tridentino, continua a creare problemi.

Già al momento della sua emanazione molti, anche in ambienti ecclesiastici, affermarono che esso prevedeva la ripresa di invocazioni e di preghiere nella liturgia del Venerdì Santo che avrebbero ostacolato i progressi degli ultimi anni nel rapporto tra i cattolici ed il popolo ebreo. Infatti in esse si esprimevano sensibilità e culture antisemite che ora – speriamo- siano del tutto cancellate nella cultura e nella sensibilità di tutto il popolo di Dio. In questi mesi si era quindi posto il problema di intervenire su questo punto.
Benedetto XVI , ci sembra, avrebbe dovuto, già nello stesso motu proprio, cancellare quelle preghiere oppure trasformarle in una invocazione al Padre per la riconciliazione col popolo ebraico unitamente ad un atto esplicito di pentimento per i peccati del passato per averlo definito deicida.
Le modifiche introdotte ora dal Papa, con una nota della Segreteria di Stato del 4 febbraio, mantengono la preghiera “pro judaeis” nel seguente testo : “Preghiamo per gli Ebrei. Il Signore Dio Nostro illumini i loro cuori perché riconoscano Gesù Cristo Salvatore di tutti gli uomini. Dio Onnipotente ed eterno, Tu che vuoi che tutti gli uomini si salvino e giungano alla conoscenza della verità, concedi propizio che, entrando la pienezza dei popoli nella tua Chiesa, tutto Israele sia salvo”. Questa orazione, riflettendo e ribadendo la visione teologica della Dominus Iesus (2000) implica una regressione rispetto al testo ed alla teologia del messale del Vaticano II; chiede infatti che gli ebrei siano illuminati perché si convertano a Cristo. Essa ha suscitato reazioni vivissime da parte di alcuni tra i maggiori esponenti delle comunità ebraiche, reazioni che ci sembrano legittime. Noi non pensiamo alla conversione degli ebrei ma preghiamo perché siano fedeli all’Alleanza.
I semi, ormai ben germogliati, di un rapporto di amicizia con gli ebrei, fratelli maggiori, furono gettati dal Concilio Vaticano II nella Dichiarazione “Nostra Aetate” con parole inequivocabili. Ma ora trovano ostacoli in un Papa che guarda spesso all’indietro e che ha paura di continuare, in questo come in altri casi, sulla strada che lo Spirito ha indicato alla Chiesa.

Roma, 14 febbraio
“Noi Siamo Chiesa”

“Noi Siamo Chiesa” fa parte del movimento internazionale We Are Church-IMWAC, fondato a Roma nel 1996. Esso è impegnato nel rinnovamento della Chiesa Cattolica sulla base e nello spirito del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965). IMWAC è presente in venti nazioni ed opera in collegamento con gli altri movimenti per la riforma della Chiesa cattolica.