Riflessioni sulla “sindrome francese”: ipocrisia e politically correct

Opinioni

di Fiona Diwan

in sostegno di gaza a parigiL’ipocrisia dei salotti buoni. La tirannia del politicamente corretto. Un decennale vuoto di riflessione sugli effetti collaterali delle politiche migratorie. O ancora, gli esiti perversi di un nobile antirazzismo, diventato dogmatica ideologia. Tabù antirazzista che ha impedito a un intero Paese, la Francia, di fare i conti con la realtà dell’immigrazione e con le trappole del modello di società multiculturale.
Che cosa ha portato la Francia all’impasse in cui si trova oggi, dopo le due stragi del 7 e 9 gennaio? Non sono bastati la strage di Tolosa, le banlieues in fiamme, i disordini a Sarcelles, l’attacco alla sinagoga, lo stupro dei coniugi di Creteil, l’affaire Ilan Halimi… Abbiamo dovuto aspettare i 17 morti di Parigi, il massacro di Charlie Hébdo e dell’Hyper Cacher, perché il dibattito interno in Francia si accendesse, assumendo, di volta in volta, i toni di una accorata ricognizione sugli ultimi 30 anni di storia, o quelli di un’autoanalisi da setting psicanalitico o ancora quelli di una violenta discussione sociologica con immancabile mea culpa collettivo o al contrario, con scaricamento del barile sulle spalle di chicchessia. Dove abbiamo sbagliato?, si chiedono oggi i francesi, come è possibile che la culla dell’Europa repubblicana abbia generato l’assassinio dei campioni del libero pensiero, incarnazioni dello spirito caustico e dissacrante del Paese dei Lumi? In più di un’occasione il Bollettino aveva cercato di farsi spiegare da alcuni intellettuali francesi (Georges Bensoussan, Daniel Sibony, Vincent Tournier, Paul-Francois Paoli…), in che cosa consistesse il ventre molle dell’antisemitismo francese. Sorpresi nel sentirsi rispondere che il cuore di tenebra del nuovo antisemitismo risiedesse in un antirazzismo assurto a ideologia dominante.
Risposta difficile, di primo acchito incomprensibile. C’era qualcosa di stonato in questa risposta. L’antirazzismo non è forse il lascito irrinunciabile della Seconda Guerra Mondiale, il pilastro su cui si sono edificate le moderne democrazie occidentali uscite dai totalitarismi xenofobi coi suoi milioni di morti? Insomma, come capire una situazione francese così diversa dalla nostra?
Proviamo allora a spiegare quello che è accaduto in Francia. Ecco: in parole povere, per i francesi di oggi, accusare di qualsivoglia misfatto un musulmano, un gay, un immigrato o una donna, significa rischiare, di rimando, di essere tacciato di islamofobo, omofobo, razzista o sessista; un’accusa ignominiosa che, vera o falsa che sia, fa di te un paria, un soggetto sociale da marginalizzare e bandire da tutti i consessi intellettualmente degni, e che fa di te un impresentabile sfigato oggetto di anatema collettivo, un fascistoide cascame del passato. Ma come nasce quello che ormai molti iniziano a chiamare il “mal francese”, una patologia sociale che è un misto di ipocrisia e antirazzismo ideologico e che sembra dominare non solo il mondo intellettuale d’oltralpe, ma anche l’opinione pubblica? Hanno provato a rispondere lo psicanalista e studioso Daniel Sibony (a pag 9), il saggista-giornalista Paul Francois Paoli (autore de Pour en finir de l’ideologie antiraciste et di La Tyrannie de la faiblesse), e il docente di Scienze politiche a Grenoble, Vincent Tournier. Ad uso dei lettori del Bollettino, riassumo qui un interessante dibattito apparso sul sito ebraico francese JForum che, all’indomani dei fatti del 7-9 gennaio, si poneva preoccupato una serie di questioni.

Correndo il rischio di risultare pesanti, la lista delle domande ci aiuta a cogliere il cuore del problema. Prima tra tutte: in che modo e con quale processo l’antirazzismo si è installato in Francia come ideologia dominante? In che misura possiamo parlare di cecità da parte di coloro che agitano la minaccia razzista in Francia? E soprattutto, a quali derive ha portato il fatto di tacciare di xenofobo razzista chiunque si azzardi a criticare l’islam, l’islamismo, l’immigrazione o la delinquenza? E infine, perché il sentirsi dare del razzista è oggi in Francia considerato il peggiore degli insulti, tale da rendere chiunque impresentabile, inficiarne il prestigio sociale, immediatamente delegittimandolo come interlocutore credibile?
Rispondere, significa spiegare la Francia di oggi ma anche il crescente disagio degli ebrei francesi e il motivo delle tante alyot. Perché è stato proprio il non voler passare per razzisti, la paura di essere tacciati di razzisti, che ha impedito alla polizia francese di seguire fin da subito la pista antisemita nel caso Halimi (e quindi, forse, salvare il povero Ilan), o di sottolineare il carattere antisemita dello stupro dei due coniugi di Creteil, o di agire nel caso delle aggressioni periodiche nei licei di Parigi ad opera di ragazzi musulmani ai danni di ragazzi ebrei.
Il saggista e giornalista Paul-Francois Paoli nel suo Pour en finir avec l’ideologie antiraciste, traccia una specie di genealogia dell’antirazzismo, individuandone le origini con la nascita, nel 1984, di SOS Racisme (Touche pas a mon pote, ricordate?), i cui leader della prima ora provenivano da milieux radicali, socialisti e trotzkisti. Orfana del marxismo, della lotta di classe e delle speranze rivoluzionarie, la sinistra aveva bisogno di una nuova ideologia che parlasse ai vecchi lavoratori e ai nuovi francesi immigrati, tanto più che l’elettorato operaio tradizionale stava rischiando di passare a destra. Ecco quindi, spiega Paoli, come l’ideologia antirazzista si sia ritrovata a rimpiazzare quella che un tempo nutriva la sinistra socialista e comunista. Così, “l’antirazzismo alla francese” diventa una cassa di risonanza del risentimento di chi usa questa stessa ideologia per nutrire le proprie frustrazioni, spiega Paoli; un antirazzismo cha ha contribuito a mascherare i veri problemi della Francia, specie in materia di immigrazione, finendo per favorire la frammentazione della società invece che creare il melting pot, diventando un’ideologia divisiva invece che unificante.
Il dibattito prosegue con il professor Vincent Tournier. Il pensiero antirazzista non nasce oggi, ha una storia gloriosa e vanta una nobile genesi, spiega il professore dell’università di Grenoble: «È un retaggio umanista e repubblicano, figlio di un’idea di Nazione intesa come mescolanza (è il tema del crogiolo, caro a Renan e Michelet). È in nome dell’antirazzismo che si sono aperte le frontiere d’Europa e dell’immigrazione di massa, in un melange singolare tra eredità umanista (siamo tutti esseri umani) e società della libera circolazione delle merci (siamo tutti consumatori). Ma la militanza antirazzista porta anche a una relazione conflittuale con il suo alter ego, il Front National, entrambi poli antagonisti in un gioco di specchi dove ciascuno sviluppa le sue verità, le sue ossessioni, le sue cecità».
Ma qual è stato il ruolo politico dell’ideologia antirazzista? «In Francia, è stata la ruota di scorta ideologica di una sinistra che perdeva dinamismo storico, utile a colmare un vuoto», spiega Paoli. Senza contare che, negli anni Ottanta, col Partito Socialista al potere, la sinistra europea riconvertita all’economia di mercato aveva bisogno di un “nuovo proletariato”. Gli immigrati erano lì pronti a occupare quello spazio lasciato vuoto, spiega Tournier. E così, da quel momento in poi e con la crescita del Front National, ecco che le opinioni critiche o ostili all’immigrazione iniziano a non aver più a che fare col normale dibattito democratico quanto piuttosto con la violazione del codice penale. «Solo oggi, dopo quello che è successo, forse vedremo erodersi il politicamente corretto e gli effetti perversi dell’antirazzismo.
Intendiamoci, ribadisce Paoli: il razzismo è ed è stato una indiscutibile piaga verso cui è stato pagato un altissimo tributo di sangue. L’antirazzismo ha il merito di fissare norme morali positive, fondate sull’apertura e la tolleranza, conformi ai nostri ideali umanistici, spiega Tournier. Ma il paradosso è che l’antirazzismo così come si è sviluppato in Francia non ha fatto che accrescere il razzismo. Se creiamo un tabù, ciò che esce dalla porta rientra dalla finestra. Il fatto di negare che la promiscuità tra popolazioni diverse che NON vogliono vivere l’una a fianco dell’altra abbia provocato dei drammi, non ha fatto altro che accentuare il problema. Con il risultato, spiegano i due studiosi a JForum, di rendere impossibile qualsiasi seria discussione sull’immigrazione e sui suoi effetti. «Senza contare, infine, che la causa antirazzista, finendo per diventare ideologica, ha avuto come esito finale quello di designare delle vittime e dei boia: partendo dal principio troppo elementare che coloro che non sono dalla parte delle vittime sono forzatamente dalla parte dei carnefici. Come ai tempi in cui se non eri di sinistra eri per forza un fascista. La realtà è tuttavia più complessa. Le vittime si sono spesso rivelate essere anche dei carnefici.

L’antisemitismo dei milieux arabo-musulmani si è mostrato così massiccio che gli ebrei sono costretti ad abbandonare i propri quartieri se non lasciare addirittura il Paese. Un’aggressività quotidiana, gratuita e crapulosa ha prosperato con l’aggravante che nessuno può lagnarsene, pena passare immediatamente per razzista e xenofobo. C’è un retrogusto antisemita in moltissimi casi di microcriminalità, come è accaduto col sequestro e lo strupro dei coniugi di Creteil, ad esempio. Una dimensione antisemita diffusa, che sembra non stupire né più far reagire il francese medio, perché diventata tristemente banale. Interiorizzata come una forma di cattiva coscienza, l’ideologia antirazzista è divenuta così una patologia sociale. Molti giornalisti continuano ad autocensurarsi pur di non correre il rischio di stigmatizzare intere popolazioni o gruppi.
Lo scrittore Michel Houllebecq nel suo romanzo Sottomissione non ha forzato nulla, ha solo portato la situazione attuale alle sue più paradossali ed estreme conseguenze.
Ai più alti livelli dello Stato come al livello quotidiano, quello della gente comune, tutti in Francia hanno fatto almeno una volta la stessa esperienza: assistere a un contenzioso o a una lite nel corso del quale qualcuno ha preteso essere vittima di razzismo sotto pretesto di avere origini extracomunitarie o straniere».