Perché è così difficile chiamare le cose con il proprio nome? E dire che Jihad è “guerra santa”?

Opinioni

di Angelo Pezzana

maxresdefaultSe cinque milioni di francesi/europei hanno acquistato Charlie Hebdo il 14 gennaio scorso, non è azzardato vedervi un segnale che esiste in Occidente una buona e significativa minoranza di cittadini che si è sentita colpita dalle stragi di Parigi. Anche se la notizia dell’assassinio dei redattori della rivista è stata trattata con maggiori approfondimenti – almeno nei primi due giorni – rispetto all’attacco contro il supermercato ebraico, il movente che separava i due eventi era ugualmente abbietto: i giornalisti di Charlie Hebdo  sono stati uccisi in nome di una presunta blasfemia e perché in una società democratica non esiste l’obbligo di sottomissione a una qualsiasi religione; i clienti dell’Hyper casher perché erano ebrei, condizione sufficiente per essere eliminati fisicamente da una ideologia politico-religiosa che basa il suo fanatismo omicida sull’islam. Avendo seguito con diligente attenzione i media scritti e visivi, non si può ignorare il linguaggio che ha caratterizzato articoli e servizi radio-televisivi. In quasi tutti il timore di dire verità scomode ha generato ancora una volta l’ipocrisia più grande. Ecco qualche esempio.
Il grido “Allah Uakbar” è stato spesso tradotto con “Dio è grande”, inducendo lettori e ascoltatori a ritenere quella definizione applicabile a tutte le religioni, quando invece ne contraddistingue una sola. Il grido “Allah Uakbar” precede  solitamente e ritualmente ogni crimine, di massa o individuale. Non è accettabile la posizione di chi sostiene che l’uso di Allah e Maometto è una appropriazione indebita, quando da anni avviene, è accettata di fatto, visto che mai, nemmeno una volta, è stata emessa una fatwa da chi avrebbe dovuto pronunciarla se fosse stato in buona fede.
Il livello più spinto di critica da parte musulmana è stata la frase “prendiamo le distanze”, come se bastassero queste parole per esprimere condanna. Si prende la distanza da qualcosa che non ci piace, che non condividiamo, ma di fronte al terrorismo la posizione da prendere è una sola: combatterlo, soprattutto se è vero che i terroristi commettono stragi in nome della comune religione. Non sono poi mai state tradotte “Jihad” e “Jihadista”, il cui significato è sì comprensibile, visto che si accompagnano alle stragi che i vari gruppi terroristici sunniti e sciiti compiono negli Stati arabo-musulmani, ma altra risonanza avrebbero avuto se Jihad fosse stato tradotto in “Guerra Santa”.

Dopo le stragi di New York, Londra, Madrid ecc. – crimini compiuti tutti contro “infedeli” nel nome del Profeta – ecco quelle di Parigi. Non avere mai usato il termine “Guerra Santa”, ha dato forza a tutti quegli analisti occidentali – la maggioranza – che hanno escluso categoricamente anche la sola possibilità che questi atti terroristici potessero essere interpretati come una “guerra”. Gli autori sono stati definiti in molti modi, “lupi solitari”, persino “stupidi” o “incapaci”, forse per il non elevato numero di vittime, come è successo a Parigi. Eppure terrorismo è “guerra santa”, “Jihad”, un’altra parola che è stata detta e scritta senza la sua traduzione che ne avrebbe reso comprensibile l’origine islamica. Detto così, il terrorismo diventa anonimo, rimane un gesto orribile e deprecabile, ma passa in secondo piano chi l’ha eseguito.
Per sconfiggere il nemico si deve conoscerlo, ma sembra che stiamo facendo di tutto per fare il contrario. Perché?