Ostracismo a due velocità: perché nessuno si indigna se a un cittadino ebreo italiano, inglese o francese, viene negato il visto (come accade oggi) per un Paese musulmano?

Opinioni

di Paolo Salom

«I paesi hanno il diritto, e anche l’obbligo, di gestire in modo responsabile i propri confini per evitare infiltrazioni da parte dei terroristi, ma queste misure non possono basarsi sulla discriminazione per motivi di religione, etnia o nazionalità, perché questo va contro i principi fondamentali e i valori su cui si fondano le nostre società».
Belle parole, pronunciate dal segretario generale dell’Onu, il portoghese Antonio Guterres, nei giorni più caldi della polemica per le restrizioni (temporanee) all’ingresso negli Stati Uniti imposte dal presidente Trump ai cittadini di sette Paesi a rischio terrorismo. Già, belle parole: tuttavia, leggendole, non si può fare a meno di sentire un certo amaro in bocca. Perché, queste stesse disparità sono tuttora applicate a una sola nazionalità e una sola religione da almeno 16 Paesi arabi e islamici. Il Paese è Israele e la religione è l’ebraismo. Perché le regole in stile “apartheid” non si riferiscono soltanto ai cittadini israeliani e a tutti coloro che abbiano un timbro sul passaporto che dimostri il passaggio nello Stato ebraico, ma, in taluni casi, a chi “confessi” e indichi sulla domanda di visto di essere ebreo (vedendoselo così negato). Perchè un cittadino ebreo italiano o francese non può mettere piede in Iran, Malaisia o Libano? Perché l’Onu non ha mai alzato la sua voce contro queste norme totalmente e ingiustificatamente discriminatorie? Si dirà: ma quei Paesi nemmeno riconoscono Israele… Vero. Ma gli Stati Uniti, pur non avendo rapporti diplomatici con l’Iran dal 1979, anno della rivoluzione khomeinista e della presa di ostaggi nell’ambasciata Usa a Teheran, hanno finora accolto sul proprio territorio migliaia di cittadini iraniani. Dunque non è una questione di riconoscimento: ma di chiara volontà di ostracizzare ed escludere dal consesso della comunità internazionale un solo Paese. Cosa che riporta alla mente, è inevitabile, la propaganda nazista d’anteguerra e quello che ne è conseguito: prima l’esclusione degli ebrei dalla società, poi la persecuzione, infine lo sterminio.
È per questo che non ci stancheremo mai di denunciare l’ipocrisia del lontano Occidente. E a questo proposito vorrei chiudere con un episodio non meno spiacevole del doppio standard su visti d’ingresso e confini. Questo: il 27 gennaio scorso, in occasione del Giorno della Memoria, Donald Trump ha firmato un comunicato che, condannando le stragi naziste, ha omesso di ricordare contro chi erano state perpetrate: gli ebrei. A una richiesta di spiegazioni, il portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer, ha spiegato che non si trattava di una gaffe ma di un’omissione intenzionale “perché noi ci preoccupiamo di essere inclusivi e durante l’Olocausto gli ebrei non sono state le uniche vittime”. Numeri a parte, come può un presidente, sicuramente amico di Israele e degli ebrei, non capire la differenza tra essere l’oggetto primario di una volontà di sterminio e quello di vittima collaterale (e comunque da ricordare con pari intensità)? Se non si coglie questa distinzione, dichiarata dai nazisti senza giri di parole, è praticamente impossibile capire che cosa sia in gioco, oggi, intorno al destino di Israele, Patria unica e unico rifugio di un popolo stanco di vedersi oggetto di odio e violenza.