Lessico traditore: attenti, le parole non sono mai neutre, ma autentiche macchine da combattimento

Opinioni

di Claudio Vercelli

[Storie e controstorie] Ci sono molti modi per vivere un’esperienza, quella bellica in special modo, e ancor di più per nominarla.

In fondo, ed è una verità che troppo spesso ci dimentichiamo, prima ancora di mettere mano al calcio della rivoltella, ci si uccide, o ferisce, con i vocaboli. Le parole creano, istituiscono, designano così come distruggono. Sono delle autentiche macchine da combattimento, delle inesorabili slavine che, una volta avviate, secondo un processo cumulativo che è originato dal loro passare di bocca in bocca, diventano senso comune, significato diffuso e condiviso, quindi indirizzo per l’azione. Le parole non sono neutre come neutri non sono gli individui che le pronunciano, se per neutralità si intende l’estraneità dal contesto nel quale si generano e trasmettono. Esse celano sempre interessi e passioni poiché la loro radice, l’etimo primigenio, è strettamente legata alle cause che le hanno originate; e queste cause, sono sempre e comunque concrete, ovverosia connesse ai bisogni, materiali e culturali, di cui l’uomo è effettivo portatore.

Conviene quindi dotarsi di un piccolo vademecum linguistico per orientarsi nella cacofonia comunicativa che contrassegna gli eventi in corso. Bisogna andare oltre l’opacità delle parole apparentemente leggere, tali perché pronunciate con serena stolidità e imperturbabile irresponsabilità, per fare chiarezza, nei nostri pensieri come nei nostri sentimenti. In democrazia il cittadino ha uno strumento, quello della discussione. Se “parla male”, se si esprime senza avere piena cognizione del peso che le sue espressioni hanno – su di sé come sui suoi interlocutori – non solo manifesta l’evidenza di un cattivo pensiero ma genera piccole catastrofi di significato, i cui effetti possono essere molto pesanti. Ragioniamo allora sui termini maggiormente ricorrenti, costruendo un piccolo vocabolario ponderato della guerra di parole, come delle parole in guerra, in questi giorni. Si parla, ad esempio, di “angoscia”, una condizione emotiva – ma anche intellettuale – che informa di sé le nostre società. Temiamo un futuro, a noi prossimo, poiché non serbiamo memoria critica del nostro passato, vivendo così un presente senza volto. Ci autodefiniamo, e gradiremmo concepirci, come “flessibili”, ovvero adattabili e adattati ad un mondo che si trasforma in ragione della nostra azione, e tuttavia in realtà siamo solo fragili protagonisti di un copione che non abbiamo scritto. Il crollo delle Twin Towers e la crisi dei mutui sub-prime ben rappresentano, come istanze neanche troppo metaforiche, la caducità delle nostre esistenze umane e dei criteri di vita, che a noi parevano invece definiti una volta per sempre. Il capitalismo digitale ci consegna, insieme all’“instabilità permanente” propria dei mercati finanziari, la terribile percezione, tutta conflittuale, di un mondo in crisi poiché anacronistico: il vecchio sogno di una perennità delle forme della nostra società si infrange allora contro la sottaciuta consapevolezza – che ci alimenta per l’appunto angoscia – della loro sostanziale temporaneità. Diceva Ennio Flaiano, senza troppa ironia, che «siamo sempre in un’epoca di transizione». Quello che stiamo vivendo non è un ritorno al passato bensì una proiezione verso il futuro. Non di arcaismi pertanto si tratta; semmai del “nuovo” di cui tanti, troppi improvvisati sostenitori del mercato selvaggio si sono fatti vestali in questi ultimi anni. Quanto stiamo misurando ad ampie falcate è allora il percorso di una ricchezza, quella prodotta quotidianamente dal mondo, che finisce nelle mani di pochi.

Svaporate le vecchie identità di classe, i referenti di ceto, le identificazioni partitiche, rimangono i frammenti di una logica sociale che si è frantumata in tante molecole. La concezione fondamentalista della religione è completamente intestina a questo processo; ne è un prodotto, a modo suo coerente. Poiché non della religione in quanto tale ci parla, di cui indossa i panni senza curarsi di quanto gli siano calzanti, ma dei fondamenti di una realtà che non riusciamo più a comprendere e che essa provvede ad organizzare secondo un nuovo ordine, quello dell’adesione fanatica, fino al sacrificio del proprio corpo, ad una concezione apocalittica del mondo. Si tratta di una forma, malsana e traviata, di superamento dell’alienazione di cui siamo invece in molti ad essere destinatari e vittime. Un tale radicalismo pseudo-religioso fa strame di corpi e società tanto quanto una certa accumulazione finanziaria senza volto né, soprattutto, senso di responsabilità verso le società.

Anche per questa ragione bisogna contrastare il totem del comunitarismo identitario, della parola che cristallizza le identità, delle etichette che consegnano le persone a destini inumani. È nell’ibridazione consapevole che si trovano fondamenti, radici e ragioni della propria identità, in quanto prodotto storico. La chiamata alle armi, la mobilitazione degli spiriti, l’indignazione permanente ne cancellano invece la consapevolezza residua, rendendoci ancora più opaco e fosco l’orizzonte verso il quale ci stiamo approssimando.