La “via regia” del complottismo? I social e il web. Ma anche l’angoscia sociale e una politica sempre più pop e aggressiva

Opinioni

di Claudio Vercelli

[Storia e controstorie] Le “fortune” del complottismo, del pari a quelle del negazionismo (due facce, una sola medaglia), non sono ascrivibili all’inverosimiglianza di ciò che entrambi dicono ma al come lo vanno facendo. In un sistema di comunicazioni collettive oramai cacofonico non conta tanto il contenuto di un’affermazione ma la sua carica dirompente, tanto più se sembra liberare energie, altrimenti compresse, attraverso il gioco dell’affermazione eclatante.

Soprattutto laddove lo scetticismo generalizzato, che si trasforma in cinico rifiuto, è ad oggi una moneta corrente – nell’interpretazione della crisi di trasformazione che le nostre società stanno vivendo – per la quale un numero sempre maggiore di persone, e di famiglie, sono chiamate a pagarne un qualche pegno. Soprattutto, rispetto alla paura della perdita di posizioni altrimenti consolidate nella scala sociale, quindi di rarefazione delle certezze trascorse, nonché di sopravveniente insicurezza.

Il complottismo e il negazionismo intercettano una sorta di diffusa critica antisistema. Poiché dichiarano che la storia, e con essa le memorie che ne fanno da corredo, costituiscono – nel loro insieme – un costrutto meramente ideologico. Ovvero, una sorta di ricostruzione ad uso e consumo del potere delle élite, al fine di soggiogare il “popolo”. Quindi, in una sorta di immediato riflesso, anche il presente sarebbe alterato da una tale manipolazione.

Il raccordo politico, da questo punto di vista, avviene senz’altro da subito con la destra radicale, soprattutto quella di osservanza neonazista – che in Italia continua tuttavia ad avere un seguito contenuto (o comunque contenibile). Ma si verifica anche con alcune componenti della sinistra estrema, la cui identità ruota in misura maniacale intorno ai cascami del conflitto israelo-palestinese e, soprattutto, con certe componenti del variegato universo populista che, nel nostro Paese, è andato costituendosi dal momento del crollo della prima Repubblica. È su quest’ultimo piano che si potrebbero giocare le fortune di un complottismo e di un negazionismo non più ideologici (ovvero strettamente debitori delle loro origini politiche, altrimenti molto connotate), bensì “diffusi”, quindi assai più spuri nelle loro formulazioni ma, proprio per questo, capaci di acclimatarsi a trend socio-culturali ampi, di lunga durata.

Dalla crisi della politica, dal collasso di una parte delle sue coordinate, come anche dalle trasformazioni della socialità, ovvero dei modi di stare insieme nella nostra età, deriva quindi uno spazio nuovo per negazionisti e amanti delle semplificazioni onnicomprensive. Beninteso, tutto da verificare, nella sua concreta tangibilità e nella sua materiale praticabilità, quindi nella capacità di tradursi in carburante della politica dei tempi a venire. Ma senz’altro sussistente, poiché il populismo dei giorni nostri non è solo la critica all’autoreferenzialità delle élite, alle quali si contrappongono condotte che cancellano le regole, le norme e le mediazioni, ma anche il terreno sul quale diventa più facile ricostruire la storia, e quindi il passato, secondo esclusivi criteri di comodo.

Non si tratta, in questo caso, di mero revisionismo, bensì di vero e proprio “reversionismo”. Un atteggiamento, infatti, che rimanda ad uno stile intellettuale per cui, di quello che è stato nei tempi trascorsi, non ci si assume la problematicità, la complessità e la stratificazione, bensì solo ciò che può eventualmente interessare sul momento. Conta quindi il singolo “pezzo”, da prendere, esibire e usare a proprio beneficio.
La storia si riduce a questa messa in scena, fatta sui moncherini dei trascorsi. Già alcuni leader politici, con spiccate propensioni alla spettacolarizzazione scenica delle loro affermazioni, hanno rivelato di quale trama sia fatto questo modo di rapportarsi al passato, così come alle memorie di esso. La logica che vi è sottesa è quella che accompagna la pop-politica, dove tutto diventa intercambiabile, poiché qualsiasi affermazione può essere capovolta nel suo contrario e così via. Senza obbligo di riscontro alcuno, a parte l’ottusa riaffermazione dell’insindacabilità della propria posizione di principio.

Questa è la cornice nella quale un “nuovo” negazionismo potrebbe trovare un’altrimenti insperata udienza. Soprattutto in ragione del fatto che le retoriche, le pratiche discorsive, le ellissi pseudo-dialettiche di cui si alimenta il discorso di chi afferma che è inesistente ciò che è avvenuto, possono risultare congeniali al fittizio anticonformismo di quanti cercano di captare, raccogliere e capitalizzare, a proprio beneficio, il crescente disagio collettivo. Che sia sociale, economico ma anche culturale. Il tutto sotto l’egida dell’angoscia da espropriazione, per un oggi che sembra di difficile gestione ed un futuro che si presenta come ancora più problematico.

Sussiste un nesso diretto tra un habitat comunicativo e informativo qual è il web, così come la cybersfera, e le visioni complottistiche del mondo. Il negazionismo, la disintegrazione della ragione, ma anche la banalizzazione dei fatti storici, che del primo è una sorta di parente non troppo distante, pongono quindi una sfida, che piaccia o meno. Essa non riposa in ciò che dichiarano di avere ad oggetto, l’inesistenza dello sterminio razzista o la sua irrilevanza storica ai fini di un giudizio morale. Come infatti il campo del negazionismo non è quello degli studi storici, e non ha quindi a che fare con la storiografia. Semmai il punto è un altro: fino a quale estremo potrà spingersi il tentativo di rompere il senso sulla condivisione di una storia che appartiene a tutti, decretandone invece l’irrilevanza e, quindi, l’estinzione in quanto mera “narrazione di parte”? Poiché se così altrimenti fosse, mal ne deriverebbe alla stessa cittadinanza repubblicana e democratica.

La battaglia è senz’altro politica, a patto che si riconosca che la fisionomia di ciò che è riconosciuto come lo spazio della “politica” sta velocemente cambiando, trasformandosi in un territorio sempre più impervio, dove l’aggressione si sostituisce alla mediazione, nel mentre, al legittimo conflitto, si sovrappone l’annientamento del “nemico”. Che non è solo un atto materiale, ma è prima di tutto un gesto simbolico, carico di conseguenze. A partire dalla stessa contrapposizione tra Israele e Hamas, tanto per arrivare ai giorni nostri.