Il perdono: una cosa troppo seria per lasciarla ai confessori

Opinioni

di Vittorio Robiati Bendaud

Una risposta ebraica a Ferdinando Camon, che nel suo articolo su Avvenire (Leggi QUI) ci parla della richiesta, da parte del mostro di Auschwitz Rudolf Höβ, di confessarsi prima di essere impiccato

Vi è un testo straordinario, di cui caldeggio sovente la lettura, circa pentimenti e assoluzioni (negata, giustamente, in quel caso), ossia Il girasole. I limiti del perdono di Simon Wiesenthal. È un libro straziante e serissimo che viene consigliato anche da molti amici cristiani, cattolici e no, consacrati o meno. Molti di questi amici, tra cui annovero almeno due vescovi (uno abbastanza “conservatore, l’altro assai “progressista”), in ampia misura concordano con la posizione “non-perdonista” sostenuta all’epoca da Wiesenthal, che negò – da deportato – un perdono “per procura” a Karl, un giovanissimo SS pentito sul letto di agonia e di morte, che aveva cercato disperatamente un ebreo per aprire l’abisso del suo cuore, pentirsi e chiedere scusa.

Il perdono è realtà essenziale e preziosa, come tale rigorosa e seria. È proprio nell’appassionante avventura esistenziale e spirituale del Tanakh, la Bibbia ebraica, che s’incontra il perdono, la riconciliazione, tanto verticale (tra l’essere umano e Dio) che orizzontale (tra esseri umani e con loro stessi). L’imperante “perdonismo”, con il suo blaterare narcisistico ed emotivista, è stato (ed è) spesso cavalcato da molte forme di cristianesimo, anche contemporaneo (seppur, in quest’ultimo caso, più con accenni, reticenze e allusioni), in polemica, conscia o inconscia, con l’ebraismo. Nella falsa e fuorviante opposizione marcionita tra “legalismo spietato e freddo” e “amore incondizionato e avvolgente”, tra “giustizia algida e cavillosa” e “benevola misericordia”, tra “ostinato particolarismo” e “libertà universale”, le sbrodolate retoriche sul perdono “discount” di alcuni ecclesiastici hanno giocato – e non di rado ancora giocano – una partita odiosa. Quando queste melliflue retoriche, con i loro supponenti cliché – supponenti perché tradiscono la certezza di una “superiorità morale” -, si accostano alla Shoah e a quanto il popolo ebraico ebbe a patire in quell’inferno in terra, noi – giustamente! – ci alteriamo e non poco, anche perché, a conti fatti, senza l’armamentario di queste e altre ancora ben peggiori predicazioni bimillenarie cristiane, la Shoah non ci sarebbe stata.

Ferdinando Camon nel suo articolo su Avvenire ci parla della richiesta da parte del mostro di Auschwitz Rudolf Höβ, poco prima di ricevere la condanna a morte, di confessarsi. Il letterato è inequivocabilmente chiaro e rispettoso nell’esecrare con fermezza i tremendi e indicibili fatti occorsi e rileva anche il disagio del confessore (che vide sterminati dal nazista molti suoi confratelli) nel ricevere il confiteor del carnefice genocida, che apostrofò come “animale” (con onta per le povere bestie!). Fu una confessione molto lunga. E si giunge così alla conclusione dell’articolo, ovvero esattamente ciò che mi ha fortemente irritato. Due amici (nello specifico due ebrei: uno osservante mentre l’altro no) ritengono che, per come la presenta Camon, non si esalti qui l’assoluzione di Rudolf Höβ, ma, piuttosto, la si ridicolizzi, assieme al concetto stesso di “assoluzione” in quel caso specifico. Questa possibile chiave di lettura mi ha parzialmente calmato, anche se non mi convince (sarebbe inoltre strano che proprio su Avvenire, il quotidiano dei vescovi, si ipotizzi di ridicolizzare materiale tanto delicato come l’assoluzione). Riporto la chiusura del pezzo: “A quel punto, il comandante scoppiò a piangere, e continuò a piangere anche il giorno dopo mentre lo impiccavano. Ho visto la forca, è ancora lì. Darei chissà che cosa per sentire quella confessione. Perché se fu possibile assolvere il comandante di Auschwitz, allora non c’è nessun colpevole sulla Terra che non possa pentirsi e non possa essere assolto”. Se la lettura proposta dai miei due amici fosse corretta, resta il fatto che tale conclusione, per come è presentata, è assai scivolosa perché non si capisce se si tratti di denuncia o speranza.

È paradossale che nel processo di cristianizzazione della Shoah, per cui Auschwitz diventa il Golgota del mondo contemporaneo e gli ebrei-vittime figura Christi, il pentimento last minute dell’aguzzino Höβ suoni come una sorta di redenzione in extremis dell’Iscariota di evangelica memoria, proprio prima del cappio. Gli amici cristiani devono guardarsi dall’insidioso processo di cristianizzazione indebita (con le sue distorsioni e contorsioni) della Memoria ebraica, quando vogliono assumerla su di loro e condividerla. E dovrebbero, con sapiente discernimento, operare una distinzione quando invece rammemorano la specifica Memoria cristiana dell’orrore nazifascista, che non è solo la memoria di fulgidi martiri (che vi furono!), ma anche, purtroppo, di mostri, collaboratori e complici.

A me non interessa come Dio possa giudicare un altro essere umano, perché per noi è impossibile farlo, ignorando metro e giudizio, e risulta incomprensibile, dato che non di rado siamo incomprensibili persino a noi stessi. Certo, un’assoluzione divina a fronte di tanto immane dolore umano innocente ai miei occhi risulterebbe comunque una sonora bestemmia, in primo luogo contro la sacralità della persona umana, che in sé reca impressa l’immagine divina! E, per tale ragione, il fatto che dopo una lunga ‘chiacchierata’ un simile individuo possa essere stato assolto da un’altra persona è per me motivo più di disperazione che di speranza, anche perché, a differenza di Karl, non gli interessò affatto, benché in punto di morte, rivolgersi, anche in una più che controversa modalità “vicaria”, alle sue vittime o al loro popolo superstite. Ancor più, se costui davvero avesse raggiunto la consapevolezza dell’enormità dei crimini perpetrati per anni, per primo sarebbe stato conscio di non avere il diritto di chiedere alcuna assoluzione! E il fatto che costui piangesse è assolutamente privo di interesse, perché quasi certamente si trattò, anche in quell’oscena occorrenza, di un prevaricatore assassino e mendace, terrorizzato vigliaccamente dalla propria morte. Non dimentichiamoci, poi, che Höβ prese parte attiva a ben due genocidi, quello armeno in gioventù e, in seguito, la Shoah.

Resta infine un punto nel pezzo di Camon che proprio non mi convince. Si sottolinea che Höβ fu soltanto nominalmente un cattolico. In questo modo, consciamente o meno, si cerca di smarcare il cristianesimo dal nazifascismo, pur riconoscendo che quell’abominio fu anzitutto un’ideologia neopagana. Ma così, ipso facto, si tenta di ridimensionare il ruolo essenziale e primario dell’antiebraismo cristiano nella costruzione e pavimentazione, secolo dopo secolo, del cammino che condusse ad Auschwitz. Cito, giusto per fare un esempio, l’ottimo volume Bibbia e antisemitismo teologico. L’esegesi biblica tedesca da Herder a Semler a Kittel e Bultmann (Paideia 2020). Ma, per ritornare in ambito cattolico, come comprendere il monsignore ampezzano Alois Pompanin, prelato d’onore di Sua Santità, che, assieme ad altri, battezzò al rito cattolico, aiutandone poi la fuga, Erich Priebke, i familiari di Borman e Adolf Eichmann? Sacramenti e redenzione per loro e anche per il monsignore? E, da ultimo, perché il quotidiano dei vescovi italiani non racconta di quest’ultimo pessimo soggetto, dei suoi sodali e delle sue prodezze?